«Davanti alla realtà, l'immaginazione indietreggia, mentre l'attenzione la penetra»
Cristina Campo
Tra il respiro del vento e il frinire delle cicale, il buio, lentamente, si accende della luce del giorno. Silenziose presenze fantasmiche rimangono avvolte dalle tenebre. La staticità di un’immagine bidimensionale e immobile incornicia attimi di una realtà che attende di divenire altro, di mutarsi e acquisire movimento uscendo dalla fissità.
Volti, occhi e corpi costretti dall’inquadratura che si fa prigione, stretta intorno all’individuo, in quella cattività muta e imposta; una coazione delimitata dalle catene e da un lucchetto ben saldo che apre la scena introducendo lo sguardo a squarci di attesa atemporali. La costruzione del piano è la restrizione dell’immagine all’interno della messa in quadro, nel ritmo lento e sfocato della calura estiva, dove le azioni vengono svolte per accompagnare lo scorrere del tempo nella speranza di velocizzarlo. La prigionia dell’uomo è anche quella del cibo che viene servito, l’essenza della vita è forzata in una sterile reclusione, tra le gocce di vapore di contenitori ben sigillati, la metafora di un’esistenza mesta, priva di sapore e difficile da affrontare.
CittàGiardino, di Marco Piccarreda e Gaia Formenti, vincitore del Premio della Giuria dei Giovani nel corso dell’ultima edizione del Festival International de cinéma Visions du Reél di Nyon, e presentato in concorso al Festival di Cinema del Reale, IsReal di Nuoro, giunto quest’anno alla sua terza edizione, è un’opera dolente che mette in relazione sguardo politico e, al contempo, poetico, tracciando la realtà fenomenica di una tragedia attuale.
Jean-Luc Godard diceva che «Les travellings sont affaire de morale» ovvero «i movimenti di macchina sono una questione morale». Il lento indugiare della mdp su visi e corpi è la manifestazione temporale dell’attesa, di un tempo in fieri, lento, lentissimo, in cui l’accadere è determinato dalla volontà altrui. Così, tornando a Godard, qui i movimenti di macchina tessono la fenomenologia del reale affidando alle immagini la narrazione del racconto.
Ed è tutto qui il film, in questo suo addentrarsi tra le ramificazioni arboree dove accade la vita, dove si sogna di cambiarla, partire, costruire un futuro che pare impossibile. Un muoversi indolente tra sagome concrete in un mondo evaporante, invaso da luce abbacinante, nella canicola estiva e rurale, scandito dall’alternarsi ritmico tra il fulgore, ardente e solare, e il chiaroscuro di una penombra che nasconde allo sguardo i fantasmi del reale.
Antonioni, nel suo Deserto Rosso, lasciava alle parole di Giuliana (Monica Vitti) una verità inconfutabile e, purtroppo, attuale: «C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cosa sia. E nessuno me lo dice».
“CittàGiardino” è il nome di un centro dedicato all’accoglienza degli immigrati, sito nell’entroterra siciliano, ma chiuso ormai da tempo; al suo interno vivono sei ragazzi, ognuno con una storia diversa alle spalle, ma accomunati dalla volontà di cambiare il proprio futuro, lontani dalle proprie origini, dagli affetti e dai loro paesi. La vita scorre sul display dei cellulari o scrutata a distanza, oltre le catene di quel cancello. Così appare inquietante lo squarcio tra vita e vita in cattività, dove l’immobilità è la sospensione dell’esistenza, una stasi forzata e innaturale. Il conflitto tra il desiderio di libertà e lo scendere a compromessi con la sua privazione è il riflesso di una realtà che non si vuole vedere e non si vuole mostrare. Ma non si può chiudere gli occhi, non si può voltare il viso altrove, tutti noi siamo coinvolti in questa tragedia e ne siamo responsabili allo stesso modo.
Gaia Formenti, in una recente intervista, ha dichiarato: «non posso non pensare ai minori stranieri non accompagnati del film CittàGiardino e a tutti i ragazzi dal destino incerto che abbiamo incrociato lungo il nostro cammino, tentati dalla fuga per disperazione, per estenuazione, scappati per andare incontro a un futuro che non arrivava mai, per la mancanza di uno sguardo adulto che li interrogasse sui propri sogni, bisogni, progetti. È questa mancanza di sguardo che prima di tutto li fa scomparire. Se non li guardiamo, si dissolveranno. Per quanto di passaggio nel nostro Paese, per quanto poco, il loro presente e il loro futuro sono nelle nostre mani».