Sono trascorsi tre anni dai due anniversari concomitanti, più di quanto si possa immaginare. Ai cinquant’anni (d’ora in avanti più uno, più due, più tre...) dall’uscita de I pugni in tasca, la folgorante opera prima di Marco Bellocchio, con cui tutti, proprio tutti si sentirono allora in dovere di confrontarsi per appropriarsene, tentando di connotarla, classificarla, afferrarla, si oppone l’eccesso inverso, il silenzio, tombale e sconcertato, di fronte agli orrori nient’affatto allegorici dell’opera ultima di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Un silenzio rumoroso, in molti casi rispettoso, come si può aver rispetto però della morte o piuttosto del morto, non del film. Dieci anni di distanza separano l’exploit bellocchiano dal film pasoliniano definitivo nonché postumo, siglando quasi una corrispondenza di situazioni diverse ma ugualmente estreme, nella medesima situazione culturale e politica di lunga durata. Dunque, un principio e una fine, d’autore, uniti da una ricorrenza, un doppio compleanno per i raggiunti cinquanta/quaranta anni, che tende con il senno di poi a farne emergere la complementarità. Due film che trascendono la misura e gli standard consueti della rappresentazione, perciò ugualmente al centro di un dibattito allargato. Due oggetti ugualmente non identificati, a monte e a valle di un processo creativo: quello dell’allora sconosciuto Bellocchio e l’altro invece troppo noto ed esposto di Pasolini. Due film che diventano altrettanti punti di non ritorno nelle rispettive filmografie, ma anche nella storia del cinema italiano, in cui l’affanno dell’analisi e dell’interpretazione scivola inevitabilmente nel giudizio sotteso, fisiologico. All’epoca, urgente. Oggi, di status, cioè di rendita e di personale convenienza. Corollario inevitabile: I pugni, sopravvissuto all’eccesso pretenzioso delle significazioni esterne contemporanee ed estemporanee, forte dell’effetto ancora dirompente del significante puro, irriducibile, non può perciò non essere rivisto oggi alla luce, o per meglio dire all’ombra del macabro e crudele Salò.
Lo spunto. La Cineteca di Bologna li ha restaurati in occasione della suddetta ricorrenza, rimettendoli sul mercato in edizioni molto pregevoli, accompagnate ciascuna da un volume ricco di materiali (quello su I pugni, curato da Michel Ciment, l’altro, su Salò, da Roberto Chiesi), trasformando il doppio, fatale anniversario in un’occasione unica di riflessione circostanziata, possibilmente a distanza di sicurezza, la giusta distanza, dal folclore critico che ne ha accompagnato le rispettive uscite, avvenute in tempi molto sospetti, diversamente sospetti. Insomma, due “casi” cinematografici tutt’altro che casuali, piuttosto causali, cioè concepiti con cognizione di causa, che sfidano il proprio momento storico sfuggendo deliberatamente ai canoni del realismo e della significazione immediata mediante applicazione/sottomissione all’esistente. Bellocchio costruisce la sua parabola forte di una maschera autobiografica, autoreferenziale, autoanalitica, lontano dai centri nazionali, nella città natale, Bobbio, che diventa da quel momento il luogo deputato di un conguaglio continuo e personale con l’Italia, il mondo, le regole del gioco politico, ideologico, estetico. Compie in pratica un’operazione in cui l’autonomia intellettuale viene rivendicata con una scelta di campo ristretta, modulare, esemplare, in compagnia di fantasmi autobiografici, amici, parenti. Perché marcare questo senso di isolamento? Lo spazio provinciale, appartato di Bobbio garantisce all’esordiente Bellocchio un margine di azione e di ricerca delle forme appropriate, al riparo da investiture dall’alto, che comunque, puntuali, sarebbero arrivate, tentate. Pasolini, nel decennio seguente, in limine mortis, ancorché involontariamente sottratto dai suoi assassini all’inevitabile, previsto, annunciato “scandalo”, ha compiuto una scelta analoga, temporale oltre che fisica. Si è ugualmente appartato, a suo modo. Ha cioè individuato una situazione orrenda retroattiva e genealogica di rastrellamento e internamento di soggetti innocenti, disposta ed eseguita da una gerarchia di mostri dichiaratamente istituzionali. Anche lui ha selezionato molto accuratamente i compagni di sventura e auto-isolamento: le vittime e i carnefici, senza via di scampo degli uni dagli altri. Sia I pugni in tasca che Salò o le 120 giornate di Sodoma si ritagliano dunque uno spazio e un tempo, retrivo o retrodatato, non fa differenza, per dire di più e meglio ciò che il presente colto nella ovvia verosimiglianza avrebbe loro precluso.
L’eventuale, rifiutata riconoscibilità, altrimenti spendibile perché a portata di mano, semplice, didascalica, avrebbe fornito un alibi comodo per interventi preordinati, mirati, pretestuosi. Lo straniamento, geografico e storico, ha obbedito in tutte e due le opere invece a una strategia che con il passare del tempo si rivela sempre più trasparente, innegabile, sostenibile. Una strategia mirata a non facilitare il compito a chi avrebbe dovuto esprimersi, e continua a farlo, sotto mentite spoglie, in nome di una diversa e non si capisce perché più libera prospettiva, portando in dote diuturna, al di là dei film, il proprio ego intellettuale e psichico, il proprio mandato politico, il proprio mestiere di vivere dentro apparati, istituzioni, conventicole, cerchi magici che si perpetuano, si avvicendano, si scontrano al solo scopo di prendere il sopravvento, occupare la scena, il controllo, esercitare il potere, di veto, di giudizio, di memoria costruita su misura, in cui si smarrisce il confine, peraltro improbabile (cioè non dimostrato, privo di riscontri) tra autorevolezza e autoritarismo. Da un lato c’è I pugni in tasca che sfida questa pratica di accaparramento, controllo, esercizio eterodiretto del senso. Dall’altro Salò o le 120 giornate di Sodoma, che porta alle estreme conseguenze dell’inguardabile, dell’indigeribile, dell’insostenibile la rappresentazione pratica e diuturna della prassi del potere, potere sui corpi, sulle menti, sulle cariche istituzionali, senza soluzioni di continuità. Il tutto avviene nei due film in virtù di una resistenza ed elaborazione inossidabile e preventiva del significante, sfidando a viso aperto, da allora, cinquanta o quarant’anni fa, ogni padre-padrone vecchio e nuovo o vecchio e sedicente nuovo convinto di poter istituire una dittatura permanente del significato. Con la loro indifferenza verso tutto, I pugni e Salò, dalla loro postazione pluridecennale se ne stanno lì, immobili, irremovibili, alteri, sfacciatamente compiuti e mai espropriati del proprio valore assoluto di capolavori iniziatici o terminali. L’impeccabile restauro digitale, addirittura filologico, ad esempio quello de I pugni in tasca, che grazie alla supervisione dello stesso Bellocchio ritrova il contrasto fotografico voluto e mai completamente ottenuto all’epoca dell’uscita in sala, conferma a tempo indeterminato l’inaccessibilità del testo, allorché il testo, questi testi, non fanno, perché i rispettivi autori non l’hanno voluto né permesso, il gioco di nessuno.
Giunti a questo punto, facciamo un passo indietro, e magari due in avanti. Poiché esistono coincidenze ulteriori tra le due opere e i rispettivi autori, e sono tante. L’asse Bellocchio-Pasolini o viceversa Pasolini-Bellocchio, andata e ritorno, che si sviluppa principalmente attorno al sistema di vasi comunicanti che lega principalmente I pugni in tasca e Salò o le 120 giornate di Sodoma, merita di essere declinato in tutte le sue possibili sfaccettature. Partiamo dagli episodi più noti, come l’ormai storico carteggio tra i due1 G. Gambetti (a cura di), I pugni in tasca. Un film di Marco Bellocchio, poi in M. Ciment (a cura di), I pugni in tasca, pp. 123-131. , riprodotto anche nel suddetto libro curato da Ciment, e che in realtà cela il primo e forse più significativo esercizio organico di estromissione dell’autore del film dal dibattito sul film. Sappiamo infatti che questo sedicente scambio epistolare «in realtà è doppiamente fittizio, creato per introdurre la pubblicazione della sceneggiatura […], e perciò privo di date. È autentico solo per quanto riguarda le lettere di Pasolini, mentre le risposte di Bellocchio, come ha più volte dichiarato lo stesso regista, sono state scritte da suo fratello Piergiorgio insieme a Grazia Cherchi. Piergiorgio Bellocchio, tuttavia, non ricorda l’episodio. Più probabilmente, dunque, le risposte sono da attribuire alla sola Grazia Cherchi»2P. Malanga (a cura di), Marco Bellocchio. Catalogo ragionato, Olivares, Milano 1998, p. 39.. Non è però “fittizio”, ancorché costruito a tavolino e in un certo senso inflitto, il dissapore tra Bellocchio e Bertolucci incautamente alimentato proprio da Pasolini che aveva assegnato Prima della rivoluzione del suo ex aiuto regista Bertolucci alla categoria privilegiata del cinema “di poesia”, a differenza de I pugni in tasca di Bellocchio, relegato in quella del cinema “di prosa” (salvo l’attenuante «che spesse volte sbava e sfuma quasi nella poesia»)3P. P. Pasolini, in M. Ciment (a cura di), I pugni in tasca, cit., p. 123.. Difficile stavolta fraintendere la circostanza. Poiché, pur nel rispetto delle reciproche posizioni, la sovrastruttura estetica, esemplificata nella dicotomia pasoliniana poesia/prosa4Cfr. P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972; 2000, pp. 17-18, 34, 45, 47-48., così è stata recepita comunemente. Prova ne è il resoconto che ne fa il giovane Dario Argento, in veste per l’occasione di critico e cronista cinematografico che assiste all’incontro, il 16 marzo 1966, organizzato dal Circolo Culturale Ludovisi nientedimeno che nella Sala dell’Associazione Italia-Urss: «Quindi ha preso la parola Pier Paolo Pasolini, che ha condotto un’illuminante relazione sulle fonti di ispirazione de I pugni in tasca. Inquadrando il film in un contesto culturale, Pasolini ha subito ricordato che il cinema va diviso in cinema di poesia e cinema di prosa. Nel cinema di prosa lo stile non ha valore primario e lo spettatore non deve notare la macchina da presa e il montaggio. Il cinema di poesia, invece, lascia intravedere uno stile preciso e rende il montaggio evidente.
Godard e Bernardo Bertolucci sono registi di poesia. Bellocchio realizza film di prosa, ma con sfumature nella poesia. […] Richiesto se egli condivide l’opinione di Pasolini che classifica il suo film come un film di prosa, Bellocchio ha risposto affermativamente»5D. Argento, I pugni in tasca. Le reazioni di Pasolini e Petri. Le «spiegazioni» del regista, «Paese Sera», 17 marzo 1966, poi in S. Della Casa, Dario argento, il brivido della critica, Testo&Immagine, Torino 2000, p. 6.. Bellocchio cosa poteva fare o dire, del resto? Sarebbe stato controproducente intervenire in un dibattito che rischiava di sfuggirgli di mano, pensato com’era per trascendere il film, persino servirsi della tecnica del dividi e conquista. Comunque sia per investire il film di responsabilità alt(r)e. Controproducente per il film stesso, per la forza delle sue immagini e la sua esemplare resistenza nel tempo, contro il tempo e contro qualsiasi gioco di squadra allora in atto. Eppure la partita non si esaurisce in questa circostanza, in cui tocca a Bellocchio incassare, suo malgrado, l’autorevole collocazione assegnata da Pasolini in un preciso schema di riferimento. C’è un dopo, molto interessante, che riguarda l’altro film con cui Bellocchio fa i conti dichiaratamente con l’eredità indebita e perciò tanto più gravosa, “prosastica” di I pugni in tasca, cioè Gli occhi, la bocca. In questo film del 1982 il richiamo a Pasolini, nel titolo, è inequivocabile. L’autore di Gli occhi, la bocca attinge alla seconda parte di Empirismo eretico dedicata alla nascente semiologia del cinema citando di proposito due versi della poesia Res sunt nomina che dalle pagine di «Bianco e Nero» sarebbe nel giro di un anno trasmigrata in quella miscellanea pasoliniana: «C’è al mondo (!) una macchina che non per nulla si chiama da presa. / Essa è il “Mangiarealtà”, o l’”Occhio-Bocca”, come volete»6Cfr. P. P. Pasolini, La «gag» in Chaplin come metafora dell’azione come linguaggio, «Bianco e Nero», n. 3/4, marzo-aprile 1971, poi in Id., Empirismo eretico, cit., p. 257.. Il verso, per l’esattezza il settimo, che descrive la «macchina» (cinema) come «Mangiarealtà» o ancora «Occhio-Bocca», non soltanto si ricollega a un passaggio fondamentale del noto intervento La lingua scritta della realtà («La lingua scritta è una convenzione che fissa tale lingua orale, o che sostituisce il canale bocca-orecchio col canale riproduzione grafica-occhio»7P. P. Pasolini, La lingua scritta della realtà, in Id., Empirismo eretico, cit., p. 205.), con cui Pasolini stava contribuendo da semiotico “corsaro” o “eretico” al dibattito tra semiologi di professione, preannuncia perciò Gli occhi, la bocca, un film sul cinema, come il precedente, collettivo La macchina cinema, altro titolo che denota la medesima derivazione pasoliniana8S. Petraglia, Pasolini, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 75, 78-79..
A riprova di questa combinazione tutt’altro che occasionale, bensì strutturale e profonda, ci sono le parole scelte da Sandro Petraglia, coautore di La macchina cinema, il quale un anno prima con Stefano Rulli aveva anche collaborato alla sceneggiatura di Il gabbiano. Quando il futuro coautore della Macchina cinema, con Agosti, Bellocchio e Rulli, scrive una delle prime monografie su Pasolini regista cinematografico, non solo insiste sulla «prima necessità [che] sarà quella di “far sentire la macchina”, cioè rendere visibile l’operazione tecnica che genera l’immagine e la allontana dalla piattezza della rappresentazione usuale», ma conclude il breve capitolo Teoria riportando integralmente proprio la poesia Res sunt nomina in cui la «macchina» intesa come dispositivo cinematografico, era stata definita «Occhio-Bocca». Occhio per occhio, bocca per bocca. Già, perché il momento culminante che riporta Bellocchio da Pasolini, quindi Pasolini da Bellocchio, seguendo la catena indiziaria inaugurata da I pugni in tasca, è effettivamente l’agghiacciante Salò o le 120 giornate di Sodoma, rievocato da Bellocchio nel suo film più bobbiese in assoluto, Sangue del mio sangue. Analizzando il quale abbiamo già avuto modo di far notare l’ultimo verso con cui Bellocchio chiude la scena dell’estemporaneo canto degli alpini cui si trova ad assistere il vetusto conte-vampiro Basta non sia uno qualsiasi, ma Sul ponte di Perati, della Brigata “Julia”: «Un coro di fantasmi…»9Cfr. A.G. Mancino, Un coro di fantasmi, speciale Sangue del mio sangue, «Cineforum», 548, ottobre 2015.. A proposito di fantasmi sempre presenti, il canto era lo stesso il cui verso «la meglio zoventù che va sot'tera» aveva già suggerito a Pasolini l’omonima raccolta poetica del 1954, prima di diventare il titolo dell’altrettanto omonimo film di Marco Tullio Giordana del 2003. E in tema di «coincidenze significative», a proposito di Sul ponte di Perati, era ed è logico pensare al Ponte Gobbo di Bobbio, asse gravitazionale della doppia vicenda di Sangue del mio sangue. Ma soprattutto la sorprendente connessione ci è parso volesse riportare il discorso all’asse Pasolini-Bellocchio, trattandosi anche del canto intonato a tavola dagli aguzzini di Salò o le 120 giornate di Sodoma, provocatoriamente o in virtù forse del «bandiera nera» immediatamente successivo al verso inaugurale. Oltretutto nel film di Pasolini lo ascoltiamo mentre il pittoresco personaggio del Presidente, interpretato da Aldo Valletti e doppiato guarda caso da Bellocchio, si lascia allegramente sodomizzare. Restando, date le circostanze, in silenzio. Torniamo quindi a chiederci perché Bellocchio insista a volerci far (ri)sentire la polisemica Sul ponte di Perati, oltre che per le ragioni suddette. Ce lo siamo chiesti una volta ancora rileggendo il resoconto puntuale che Chiesi nel suo libro sul film restaurato di Pasolini fa della complicata vicenda che prevedibilmente porta Salò a fare i conti con la censura e la magistratura10Cfr. R. Chiesi, Cronaca di una persecuzione annunciata. Salò e la censura, in Id. (a cura di), Salò o le 120 giornate di Sodoma, volume allegato al dvd restaurato, Cineteca di Bologna, Bologna 2015, pp. 35-45.. La risposta diventa lampante, immediata, semplice. Bellocchio, che ha sempre concepito il suo come un cinema assolutamente di poesia, lasciando la prosa semmai ai suoi prosaici interpreti di un tempo e di ogni tempo, recupera a ragion veduta la poesia mortale, in versi e in immagini in movimento, di Pasolini, prossimo suo come pochi o nessun altro.
I problemi principali non arrivano tanto in sede di censura, cioè dalla Commissione di revisione a novembre del 1975, quando Pasolini ormai è stato ucciso, la cui decisione contraria alla proiezione in pubblico viene cambiata a dicembre dalla successiva Commissione di appello di revisione, cui si era rivolto il produttore Grimaldi. Arrivarono dopo, a gennaio del 1976, motivo in più per trovarci ora a scriverne a inizio 2016 celebrando quindi un anniversario contiguo. Il sequestro viene disposto su pronta denuncia dell’Associazione Nazionale degli Alpini offesi dalla scena del duca che canta assieme agli altri aguzzini Sul ponte di Perati. In Sangue del mio sangue Bellocchio chiude il cerchio di una relazione pericolosa con l’autore di Salò fatta di richiami incrociati e – ripetiamo - coincidenze significative, junghiane sì, cui molto si è dedicato anche il politologo Giorgio Galli11Cfr. C. G. Jung, Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge, 1952 (tr. it. La sincronicità, Bollati Boringhieri, Torino 1980) e G. Galli, Le coincidenze significative. Da Lovecraft a Jung, da Mussolini a Moro la sincronicità e la politica, Lindau, Torino 2010..
Una relazione che allude pertanto a un groviglio inestricabile di cause e concause, delitti e segreti, fatti e misfatti, causalità e casualità, che avvolgono la storia italiana degli ultimi decenni, e di cui anche l’interesse d’ufficio a cercare a tutti i costi di dare un senso alle due (e più) opere di Bellocchio e Pasolini, così lontane, così vicine, costituisce un sintomo da tenere in debito conto.