Tempo elastico

Cinema che per molti versi disinnesca il cinema, questo di Ceccarelli, certamente se lo si considera sotto il profilo delle modalità produttive. La lavorazione di un film, per abitudine inveterata di certo cinema “di mercato”, si colloca entro un arco di tempo limitato, e così è per una molteplicità di ragioni economiche, organizzative, logistiche, tecniche. Chuva Oblíqua, che nel richiamo a Pessoa implicita una vocazione intimista e lirica, è sfilato tra la meraviglia degli astanti sugli schermi della sezione "Satellite" della cinquantaquattresima "Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro", segnalandosi da subito per la vocazione cronologica del tutto asistemica rispetto al modello produttivo corrente.

Chuva è infatti opera di pedinamento in tempo reale della vita, la cui lavorazione si estende alla durata della vita stessa e in cui il tempo rappresentato si dilata e si contrae in ragione di una direttiva cronologica tutta interiore ed emotiva. Ceccarelli, scartando la logica autocelebrativa del selfie, come quella ormai consolidata del first-person movie, e in totale assenza di voluttà (auto)vouyeristica, ma semmai con un intento autoanalitico che ha del terapeutico, rivolge la macchina da presa verso se stesso e la propria minima. Un lavoro quotidiano di testimonianza videomatica che non segue trame preordinate ma l’imprevisto accadere della vita del regista per un arco di molti anni senza alcuna “trama”, nel senso che gli si dà di preventiva strutturazione strategica degli accadimenti, se non quella data dallo scorrere del tempo. Chuva Oblíqua è un dispositivo ottico aleatorio, una macchina da presa che quasi per caso, abbandonata dietro ad alcune bottiglie in cucina, sul comodino in camera da letto o tra le mani di Ceccarelli mentre conversa col volto amato o immortala l’amico migliore in icona di Madonna piangente, coglie istanti di normalità, di noia, di un non-ricordo che si fissa nelle immagini spesso riluttanti alla decifrazione di questo film. Il montaggio che vediamo ne è configurazione parziale ed effimera, estrapolazione estemporanea di lacerti stralciati da un materiale estremamente più vasto, fatto di ore e ore di girato che fissano nella memoria ore e ore di vita vera in una sovrapposizione tra cinema e realtà che è quasi perfetta. Immagini-ricordo accatastate nella memoria digitale degli hard-disk che le contengono fisicamente, come in quella del regista, che le conserva “emotivamente” e che per la natura del progetto vengono praticamente a coincidere, in attesa di una rilettura postuma, e di un montaggio che potenzialmente potrebbe non avvenire mai. 

Se una qualche forma di ordito narrativo esiste, tutto dipende dal lento tracimare degli eventi reali nella vita del regista, che qui ne offre una selezione, in qualche modo quindi una narrazione, possibile ma non esaustiva (anche perché si tratta di una estrazione operata da una vasta opera girata e montata a quattro mani con Matteo Arcamone della durata di otto ore, a sua volta estrapolata dall’enorme archivio accumulato). Molti i piani sequenza, le inquadrature che durano quanto un’intera scena, prive di tagli interni e in cui dunque cinema e vita reale coincidono per estensione nel dominio del tempo. Nello schema emotivo che guida il film questi lacerti di tempo in scala 1:1 corrispondono ai momenti di osservazione “oggettiva”, non alterata dal filtro dell’emozionalità, del Ceccarelli sul proprio esistere. Ma il suo estro, in altrettanti momenti, letteralmente, impenna in picchi di lirismo visivo ed emotivo, in cui è possibile ogni espansione o rarefazione del tempo sulla base di coordinate del tutto interiori, dettate dalla rilevanza dei frangenti nell’economia emozionale del regista. Ecco che le lunghe fasi della sua assenza dal mondo, in cui ha abitato dolente nel chiuso del proprio interiore, si aprono ad una durata potenzialmente infinita, elastica, che trova nell’estremo rallentamento del movimento la propria chiave di volta visiva. Scene che durano quanto l’intensità del suo dolore, o del suo amore, come capita nelle bellissime scene “acronologiche” dedicate alla sua amata, tutte mosse da una logica del tempo in fibrillante sospensione emozionale.

Non-cinema digitale

Estensione della lavorazione nel tempo di una vita, cinema che dura quanto il reale, una modalità che presuppone una capacità di memoria biologica e digitale insieme, il livello biologico-emozionale e il suo supporto binario, che ne preserva l’immagine nel tempo. L’idea dell’archivio delle immagini come dei ricordi, la sedimentazione preventiva dei materiali iconici e dunque la possibilità successiva di rinvenire tali immagini-memorie e sottoporle al processo di razionalizzazione, di riflessione, che è il montaggio, sta alla base di questo film, allontanando di un altro passo la sua natura irregolare da quella dei suoi panciuti cugini irreggimentati dal sistema. Tutto risponde a questa logica nella pratica filmica di Ceccarelli sin dal livello germinale della concreta realizzazione tecnica delle riprese e dei molti effetti cromatici e dismorfici che le trasfigurano, che non sono mai frutto di interventi in post-produzione, ma realizzati tutti, come si dice, "in macchina", agendo cioè manualmente sul dispositivo, agitandolo o modificandone la messa a fuoco, il punto di bianco,la temperatura-colore, l’apertura del diaframma, oppure semplicemente sfarfallando rapidamente le mani davanti all’obiettivo. L’esito visivo non è dunque frutto di una forma prestrutturata di pensiero ma di una interazione immediata dell’occhio e della mano del Ceccarelli con l’oggetto d’immagine, secondo uno schema stimolo-reazione di tipo elementare, che ne restituisce l’immediata percezione emozionale, o comunque l’immediata modalità di ricezione ottica che ne ha avuto in quel momento, che solo successivamente, nella fase “scritturale” del montaggio, potrà trovare una sua strutturazione riflessiva ed ordinante. Anche in questo, nel suo essere cinema non generato da un preventivo lavoro scritturale strutturante, Chuva Oblíqua risulta depositante rispetto alle logiche di produzione nel cinema convenzionale e certo la sua esistenza evenemenziale e quasi fortuita ripropone in maniera problematica la questione della necessarietà dello script e della relazione derivativa che innerva ad esso il film nella sua forma schermica.

Dualismo pessoano: la mediazione emozionale dell’iconicità tra soggettività poetica ed oggettività del reale

A questo punto pare legittima la domanda: cosa resta del cinema, cosa ancora lo distingue dal real e se la dimensione cronologica in cui si dipana è la medesima e non c’è una struttura ideativa preesistente a differenziarne la logica di successione degli eventi? Resta, ed è questa la chiave di lettura primaria di questo lavoro di Ceccarelli, quella possibilità prismatica e fondativa per il cinema che è la mediazione della forma iconica, la capacità del cinema di tradurre il mondo in immagine, e di fare di questa, per mezzo delle possibilità manipolative che offre la sua natura tecnologica, il luogo di concentrazione espressiva di infinite istanze emozionali e psicologiche. È a questa essenza primordiale che si riconduce il cinema di Chuva Oblíqua, alla possibilità elementare di mettere “in forma” le emozioni attraverso il mutare lirizzato dei propri oggetti percettivi, i suoni e le immagini, sfruttando la capacità di innesco emozionale di forme, colori, contorni visivi e sonori liberati dai vincoli derivanti dall’obbligo della mimesi del reale o della narratività. Una ulter-riorità dell’interiore che Ceccarelli ben rimarca nella differenziazione formale, e dunque nella relazione, tra i momenti dominati dalla pura soggettività emozionale e quelli colti in regime di oggettività de-emozionante.

«Il porto che sogno è cupo
e pallido e questo paesaggio è pieno di sole da questa parte...» 

Una stratificata produzione ermeneutica individua nel componimento pessoano Chuva Oblíqua un punto di snodo fondamentale della sua elaborazione poetica nella direzione del superamento di quella propensione auto-analizzante, di indagine del proprio contrastato universo interiore e poetico che caratterizzava, per esempio, Paludi, del 1913. L’iconografia portuale di Chuva dicotomizzata tra l’immagine del porto ideale, sognato, desiderato, e quella del paesaggio reale, osservata dall’esterno oggettivo, media l’idea, ormai matura in Pessoa, della ineluttabilità-necessarietà del confronto tra quella dimensione tutta interiore su cui si era precedentemente auto-ripiegato e quella oggettività del reale di cui non nega l’immanenza. Ma la vocazione poetica non si doma, la preminenza dell’interiore nell’artista, il creatore di false immagini per eccellenza, porta lo sguardo a vedere ben oltre l’opacità dell’ordinario, le acque del porto, e a disvelare la natura falsificata delle immagini (la stampa) che sul quel fondale abbiamo adagiato.

«D’improvviso tutta l'acqua del mare del porto è trasparente
e vedo sul fondo, come una stampa enorme che vi fosse dispiegata»

Questo in fondo sembra essere anche il tracciato seguito da questo film continuamente bipartito tra l’immagine asetticamente oggettiva del reale e le derive visionariamente espressioniste di un’interiore d’artista che filtra e rielabora il mondo circostante nel tentativo continuo ed autoterapeutico di vederne il fondo attraverso le acque opache. Una forma dialogante tra interiore-soggettivo ed esteriore-oggettivo, che in quanto tale presuppone uno iato, un criterio di diversificabilità tra i dialoganti che nel discorso di Ceccarelli trova la via del continuo scarto  formale tra un realismo quasi a-registico, frutto dell’alea, e momenti di formalizzazione estrema, in cui lo stile si fa portavoce di un punto di vista del tutto individuale (ed emotivo) sull’esistente attraverso le mille pratiche della manipolazione dell’oggettività ottica. Non è dunque cronistoria né ricostruzione programmaticamente neutra del proprio esistere in movimento, quella cui aspira Ceccarelli, e l’oggettività, che pure alligna nelle molte scene di quotidiano interno domestico, non sembra interessarlo più di tanto, tornandogli buona, semmai, nel formalizzare la noia dei momenti di minor pregnanza emozionale, in cui il tempo scorre secondo la sua ordinaria logica dis-emotiva. Lo scarto stilistico si fa marcato quando vanno in scena le fasi di tracollo e rinascita interiore (un amore nuovo, un’amicizia salvifica, i momenti di dolore, o d’assenza), nelle quali, come già si è detto, il tempo si dilata e contrae in ragione dell’emozione. Qui l’immagine si carica di una prorompente poeticità sensoria che passa da un travisamento della verità ottica dei colori, dei contorni, delle consistenze materiche, degli esistenti, che restituisce, fuor d’ogni obbligo di verosimiglianza, la mappatura tutta emozionale con cui il regista legge o li ri-legge quelle presenze e quei fatti. Qui “il Cecca” regala momenti di vero splendore visivo, tra composizioni cromiche di grande lirismo, divagazioni astratte di forme luminose e alterazioni espressionistiche dell’immagine, che forse costituiscono la cifra più distintiva del film e un valore pittorico aggiunto.

Il crudo bagno di realtà del family-footage iniziale si chiude su una prima e dolorosa divagazione lirica, luttuosa cerimonia del distacco che scorre tra sfocature e petali di fiore, e una prima inflizione traumatica per la giovane sensibilità del regista, che trova la forma di un’immagine-assenza, un non-sentire difensivo che sullo schermo proietta deformazioni acquatiche di figure appena riconoscibili, giochi cinetici di neri e blu notturni tra fronde arboree e luna o astratte luminescenze sciabolanti nel buio, tutto di una qualità visiva pittorica e deliziosa. Montaggio a strappi, che non cerca la relazione significante tra un episodio e l'altro. La prima forma della rinascita è un amore, che resta fuori film, ma non dai molti hard-disk che contengono Chuva, per quasi tutto il suo trascorrere e che ritroviamo ormai quasi svuotato delle sue iniziali ragioni in quelle che credo siano le sue fasi finali. Le molte inquadrature “sbagliate” (decentrate, o fuori fuoco, o prive della testa, o riprese da luoghi improbabili ecc.) di un quotidiano di coppia incomunicante, che trascorre tra ore davanti al computer e chiacchiericcio inutile, restano impigliate, quasi per caso nello sguardo di una telecamera abbandonata senza intenzione registica in luoghi a casaccio della casa, spesso cinematograficamente assurdi per il punto di vista solo parziale, ostacolato da oggetti o scentrato. La mimesi iperrealistica della non presenza emotiva corrisponde, nel vernacolo ceccarelliano, alla totale sottrazione , all'esibita non presenza, dell’intenzionalità registica.

Restano fuori da questa possibile versione del film anche la crisi e la fine di questo amore, di cui vediamo però le conseguenze svuotanti, un nuovo vacante peregrinare della coscienza di Ceccarelli e dell’immagine, prismaticamente rifratta, stavolta, disancorati entrambi in una conoscibilità incerta. Poi un attimo di tenerezza improvvisa, un digradare del fotogramma tra le nuances del blu più intimo e delicato in una scena dolceamara di lenzuola. E poi, ovvia conseguenza, un’altra crisi, senso di colpa, forse, ricerca del cambiamento che non arriva, rumore azzurro, visivo e sonoro, che si dilata nel Ceccarelli, e nella visione spettatoriale, per un tempo illimitato, quasi insostenibile in un film, baluginii fioccanti di bianco e poi visioni sfocate, fisionomie incerte di «tutto un periodo che mi ha lasciato solo immagini vaghe, ricordi sfocati e assenze». Il movimento rallenta sino alla semi-immobilità, la durata diventa aleatoria al punto che per il Cecca «Si può usare il fast-forward, tanto qui è tutta noia, può durare quanto volete». Rumore visivo e sonoro di durata solo interiore. Omessi ulteriori trascorsi, l’approdo luministico e salvifico del film arriva poco dopo, con la rinascita, alba d’amore che un commosso Ceccarelli irrora di un azzurro amoroso, di bianca luce e fresca vita, nei primissimi piani affettuosi di un nuovo volto amato ingigantiti dalla prossimità di un obiettivo che li coglie a distanza di respiro, rendendoli ancor più intimi. Lei mentre si nasconde il viso, si scioglie in un abbraccio, o ride intimidita dall'obiettivo, e il colore dell'amore di Ceccarelli. Lei che diventa tutti i tramonti d’estate mentre corre, in un loop continuo e accelerato che è come l'ossessione d'un innamoramento in quadri rifulgenti d’arancioni incantati, accesi della luminosità di un nuovo sentimento.

L’epifania cromatica e tutta luminosa del sentimento, la sostanza di cui sono fatti i film.

 

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