Leonardo Gregorio

È teatro privato, personaggi sul palcoscenico di un altro pianeta, Les rencontres d’après minuit. Ali, Matthias, Udo, La Stella, Lo Stallone, La Cagna e l’Adolescente in una casa pronta a fare dei loro corpi un’orgia e la musica sintetica degli M83 a svelarne le anime. Un film come oggetto misterioso che lentamente si schiude, un sogno con personaggi in cerca d’amore, più che d’autore, visioni debordanti a pulsare un sentimento (la necessità e la mancanza) delle cose, dell’umanità, del mondo, per diventare meraviglia, libero e rigoroso gioco infinito del cinema. Delle sue forme, delle sue possibilità. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Cannes 2013, approdato in Italia lo stesso anno al Milano Film Festival e recentemente al Cineporto di Bari come capitolo finale di Registi fuori dagli Sche(r)mi III, Les rencontres d’après minuit è il primo lungometraggio di Yann Gonzalez (fra i dieci migliori film del 2013, secondo i Cahiers du cinéma). Francese, classe 1977, il regista guarda al cinema – che conosce, e molto bene – con gli stessi occhi di quando, bambino, nelle videoteche, ha scoperto di amarlo senza averlo mai visto.

Qual è stata la tua “educazione” al cinema?

Tutto è un po’ iniziato nelle videoteche, dove a catturare la mia attenzione erano state da subito le custodie di VHS horror che raffiguravano mostri, zombie, streghe, fantasmi… Ero un bambino  e queste creature mi incuriosivano molto. I primi passi della mia cultura cinematografica sono state quelle custodie, i poster, le immagini sui giornali. Prima di cominciare a vedere film, li ho sognati, perché ero troppo piccolo per vederli, li ho ricreati con la mia immaginazione. Mi affascinavano tanto i titoli, certi erano davvero particolari, ed ogni sera, prima di andare a dormire, “recitavo” quei titoli come in una sorta di preghiera, di certo non rivolta a Dio. Per me era, in qualche modo, un rito per prepararmi ai miei incubi notturni (ride, ndr).

Ricordi qualche titolo?

Mi vengono in mente, ad esempio, The Company of Wolves (In compagnia dei lupi, di Neil Jordan, ndr) e C.H.U.D. (acronimo di Cannibalistic Humanoid Underground Dweller, di Douglas Cheek, ndr). I primi film, in realtà, li ho visti alla TV: c’era un canale televisivo, La Cinq, quello di Silvio Berlusconi, che ogni settimana, trasmetteva film horror presentati da una donna vestita da strega e chiamata “Sangria” (la trasmissione, presentata da Catherine Falgayrac, si chiamava Les Accords du diable e diventerà in seguito Sangria, ndr). Dall’età di 10-11 anni fino all’età di 14-15 anni ho visto solo questi film, solo film horror. Una notte, poi, mi sono imbattuto in Paris, Texas di Wim Wenders, che mi ha emozionato molto, e da lì ho cambiato genere, ho iniziato a vedere film di Fassbinder, Pasolini e, in generale, dei maggiori registi del cinema europeo. Ancora, oggi, però, continuo ad amare profondamente l’horror e i miei registi preferiti sono Dario Argento e Brian De Palma.

Più avanti sei approdato alla critica cinematografica, per Max, Vogue, Têtu… Come sei arrivato a scrivere di cinema e, poi, in seguito, alla regia?

Non ho frequentato una scuola di cinema, ma all’Università ho studiato Storia e Critica del Cinema. Poi, un giorno, un ragazzo che conoscevo mi ha chiesto di scrivere per un web magazine, non c’era retribuzione ma avevo la possibilità, ad esempio, di vedere i film alle anteprime stampa. Non mi sentivo però un critico, era per me quasi un gioco e infatti non ero un bravo critico. L’ho fatto per dieci anni circa, da quando avevo 25 anni, fino a due anni fa. Sono stato caporedattore delle pagine culturali di Max, che è una rivista eterosessuale, mentre Têtu è la rivista gay più famosa in Francia. Era divertente: sulle copertine di una c’erano donne nude, su quelle dell’altra c’erano invece uomini nudi. Un mio amico e collega di Max, diventato caporedattore dei Cahiers du cinéma, mi aveva anche chiesto  di scrivere per loro, ma ho rifiutato, non mi sentivo all’altezza. Anche se poi alcuni miei articoli sono apparsi sulla rivista, non in veste di critico ma di regista. In realtà, ho desiderato sempre fare il regista e, durante la mia attività di critico, ho iniziato prima a girare alcuni piccoli lavori in Super8, nulla di importante. Arrivato quasi a trent’anni, mi son detto che oramai era tempo di fare sul serio. Con i soldi ricavati da una liquidazione, ho realizzato il mio primo corto, By The Kiss, nel 2006, un’unica sequenza di cinque minuti. Girare in 35 millimetri era fondamentale, non volevo girare in digitale. Per me, era una sorta di dichiarazione poetica.

E passiamo a Les rencontres d’après minuit, partendo dal titolo, quasi una porta che introduce nel mondo del film.

Sì, arriva dalla poetessa e scrittrice francese Mireille Havet, attiva nei primi venti anni del Novecento, morta giovanissima a causa dell’uso massiccio di droghe e della tubercolosi. Il titolo di quello che avrebbe dovuto essere un suo romanzo, mai pubblicato, era Les rencontres d’après minuit. Mi sono innamorato dei suoi diari e, soprattutto, di quel titolo, bellissimo. Perché conteneva l’idea dei fantasmi, dei sogni, del sesso.

Il tuo è un film sulla pelle, più che sul corpo, e al contempo è pienamente dentro la profondità dei personaggi, dei loro dolci abissi. È una bellissima tensione. Penso, ad esempio, alla scena della masturbazione allo Stallone, il personaggio di Cantona, che masturbazione poi non è ma, piuttosto, una carezza…

Sì, è vero, c’è tutto questo e mi piace questa immagine dei “dolci abissi”. Mi interessavano le loro parole, i loro dialoghi e combinarli in una dimensione di delicatezza, mettere insieme allo stesso tempo la pornografia della parola e il candore dei loro gesti, come la carezza che hai menzionato tu. Mi interessava arrivare all’eros e alla morte in questo modo, facendo galleggiare i miei personaggi o sospenderli in un’atmosfera che potesse essere lieve, dolce.

Prima hai citato Fassbinder, e il candore dei tuoi personaggi, in effetti, mi fa pensare a lui, a certi suoi film, ad alcune figure dei suoi melodrammi.

Non lo so, i film di Fassbinder sono molto freddi, è freddo il mondo in cui colloca i suoi personaggi, la società è molto più cattiva, i miei film invece sono più morbidi. I suoi personaggi urlano, sono isterici, questo nei miei lavori non c’è. In questo momento sto pensando a Roulette Cinese, con Anna Karina.

Già, ma io pensavo  piuttosto ad alcuni melodrammi di Fassbinder, a figure come, ad esempio, la donna che ama un uomo molto più giovane di lei, immigrato, povero, in La paura mangia l’anima. Uno dei suoi lavori più belli, con i personaggi più belli. La disperazione e il candore di Emmi non sono così lontani da quelli dei protagonisti del tuo film.

Lo ricordo bene, c’è questa donna molto dolce, questa coppia circondata da una società crudele, così come lo è la famiglia di lei, i suoi figli, i vicini di casa. È il melodramma di Fassbinder più emozionante, per quanto mi riguarda, e ogni volta che mi capita di rivederlo, non posso fare a meno di piangere, è bellissimo. Amo quello che c’è fra questa donna e il giovane arabo, che non è la stessa cosa per ciascuno dei due. La tensione tra questi personaggi è sicuramente più in linea con quello che faccio io. Però i protagonisti di Fassbinder mi sembrano più isolati rispetto alla realtà esterna, anche se, riflettendoci, anche i miei personaggi vivono in una bolla e c’è  in Les rencontres d’après minuit un’idea di minaccia che arriva da fuori, come i due poliziotti che bussano alla porta. Il mio sguardo, però, resta più morbido, meno “violento”.

Prima hai citato anche Pasolini, e nel dibattito con il pubblico, dopo la proiezione al Cineporto di Bari, era venuto fuori un suo titolo in particolare, Teorema, fra i diversi film che in qualche modo si “trovano dentro” Les rencontres d’après minuit. Sono curioso di sapere invece se avevi visto il suo Il Decameron o magari letto Boccaccio, perché per certi versi, nel tuo film c’è questo tipo di struttura, un gruppo di persone che racconta, stando da un’altra parte rispetto al mondo.

No, non ci ho pensato, ma molti mi hanno fatto questa domanda, menzionando in effetti più l’opera di Boccaccio, che non ho letto, e meno il film di Pasolini, che invece ho visto e amato molto. Il suo cinema resta, comunque per me, uno dei riferimenti importanti. Quando ero studente all’Università, realizzai un corto. Nel mio lavoro, disastroso, inserii, all’inizio, una citazione di una frase recitata proprio da Pasolini che interpreta l’allievo di Giotto ne Il Decameron: «Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto»?

A proposito di citazioni, Aki Kaurismäki dice di pensare il suo cinema come «fuga dal mondo umano», ma al contempo realizza film proprio sull’essere umano, sull’umanità. In un certo senso, per altre vie, credo che questo discorso valga anche per te, per il tuo film che mette al  centro dell’artificio estremo, della finzione, i sentimenti.

Mi piacciono molto i suoi film. Direi che io non racconto l’umanità, io la sogno. Non scappo da essa né mi fa paura. Non mi piace il mondo in cui viviamo, questa società. Non mi sento per niente attratto da tutte quelle cose che si sostituiscono all’umanità, come le nuove tecnologie, gli smartphone, sono cose che mi fanno paura. Ecco perché non metterò mai telefonini e altri oggetti all’interno dei miei film.

Mi pare che tu ti stia riferendo anche a quel cinema che non sopporti, quel cinema che chiami “del quotidiano”.

Non credo di fare film distaccati dalla società odierna, sarebbe forse perfino pericoloso. Quello che cerco di fare è prendere gli umori e i colori del nostro presente e metterli in un mondo altro, irreale, che è comunque riflesso di quello vero. Poi, nel mio film ci sono altre cose, ci sono gli anni Settanta e Ottanta, indubbiamente, ma ancora di più, ci sono gli anni Venti, il periodo tra le due guerre, con quella sensazione di rinascita, di reinvenzione.

Qual è, invece, il ruolo della musica nei tuoi film? È una presenza importante, direi essenziale.

Con la musica provo ad entrare nel mondo che è quello psicologico e sensoriale dei personaggi. Tutto ciò che non riesco a fare con le immagini o le parole lo affido alla musica, che a volte riesce a fare l’amore con le loro anime.

Poi un aspetto che trovo fondamentale è questo tuo lavorare criticamente sulle zone e sulle forme più erose dell’immaginario contemporaneo. Il sesso, ad esempio, è qualcosa che è stato fortemente falsificato dai media, dal cinema stesso. Penso anche a parole come “cazzo”, “scopare”, “pompino” che i tuoi personaggi utilizzano.

Sì, la vocazione è estremamente lirica anche se il testo è volgare. Oggi noi abbiamo perso la dimensione di magia che c’è nel sesso e Internet ha avuto e sta avendo un ruolo decisivo in questo senso. Se guardi i film porno degli anni Settanta ti stupisci, perché hai la sensazione che le persone, gli attori e le attrici, fossero contenti, gioiosi. Non mi interessa affatto fare il moralista, ma credo che i film porno di oggi siano troppo crudi, diretti, violenti, non hanno lo spirito, la fantasia del sesso. Io ho tentato di riportare questa magia nel mio film, anche se qui il sesso è una sorta di punto di partenza, direi piuttosto che si tratta essenzialmente di un film sui legami, sull’amicizia. Un’amicizia sensuale.

Per tornare alla serata al Cineporto, si è parlato delle influenze provenienti da film come Il fascino discreto della borghesia di Buñuel, del Twixt coppoliano oppure dai lavori di Lucio Fulci e Dario Argento. Ci sarebbero forse ancora Garrel e Carax. Cosa manca?

Garrel e Carax non credo abbiano avuto un’influenza specifica, anche se amo molto il loro cinema. Ricordo che, giovanissimo, avevo un dizionario con i titoli dei film e, senza averli visti, i film di Garrel mi evocavano misteri, potevo immaginare mondi semplicemente attraverso i titoli. Un primo contatto più concreto con i suoi film l’ho avuto grazie alla musica del suo Le Berceau de cristal, con la colonna sonora del film firmata dai tedeschi Ash Ra Tempel. Ascoltando la musica, senza aver visto ancora il film, mi sono ritrovato in un mondo, in un immaginario che non era quello del film, ma che mi ha fatto sognare. Magari qualcosa di Garrel c’è nel mio film ma non saprei dire cosa esattamente. Ecco, forse la sequenza nel cinema proviene da Garrel. La scena iniziale, in moto, viene da La belle captive di Alain Robbe-Grillet, mentre la scena della Morte che arriva con una maschera che è uno specchio, deriva da Meshes of the Afternoon di Maya Deren. In Les rencontres d’après minuit c’è anche un po’ di The Watcher in the Woods del 1980, prodotto dalla Disney (Gli occhi del parco, in Italia, ndr). In questo film, una serie di personaggi stanno cercando di resuscitare una ragazza, in una chiesa, fanno una specie di incantesimo, c’è un vento fortissimo e questa ragazza diventa trasparente tramite un effetto speciale. C’è qualcosa di simile nella mia scena dell’incantesimo. Quello che però conta di più nel mio cinema sono i personaggi: io credo al personaggio e da lì devo partire per poter poi utilizzare qualsiasi genere o immaginario, e così anche rischiare, in qualche modo.

Come dobbiamo leggere l’apertura finale, con il sorgere di un sole vero, non cartonato come quello del racconto della storia d’amore tra Matthias e Ali?

Al finale volevo dare una nota che potesse essere, se vuoi, euforica, positiva, anche perché i miei corti precedenti avevano un finale piuttosto oscuro. Volevo questo tipo di scena e non è stato neanche facile realizzarla perché il film è stato girato a Parigi, in un periodo dell’anno molto freddo.

Come hai scelto gli attori? Come sei arrivato, ad esempio, a Eric Cantona e a Béatrice Dalle, splendida icona perturbante in Betty Blue?

Ho scelto Eric perché avevo bisogno di un qualcuno molto forte, di un corpo così fatto apposta per quel personaggio. Lui e Béatrice sono molti amici, e lei era molto entusiasta all’idea di girare un film con Eric, tanto che non ha letto neanche la sceneggiatura, non era importante, contava solo girare, si è fidata di me. Per quanto riguarda gli altri attori, posso dire che li desideravo moltissimo: Kate Moran e Julie Brémond, con cui avevo già lavorato nei miei corti, e tutti gli altri. Ho scritto la sceneggiatura pensando a loro, alle loro voci, ai loro corpi.

Mi racconti del nuovo film che stai scrivendo in America?

È ambientato nella scena dell’industria cinematografica porno gay anni Settanta. Il personaggio principale è il primo produttore donna di film hard. Sarà un film horror, in realtà. Mi piace l’idea di combinare un personaggio molto particolare, in un certo senso anche violento, con la follia sessuale che c’era prima che arrivasse l’AIDS.


*Grazie a Vincenzo Rossini per la preziosa disponibilità


Filmografia

Betty Blue (37°2 le matin) (Jean-Jacques Beineix 1986)

By The Kiss (Yann Gonzalez 2006)

C.H.U.D. (Douglas Cheek 1984)

Il Decameron (Pier Paolo Pasolini 1971)

Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie) (Luis Buñuel 1972)

La belle captive (Alain Robbe-Grillet 1983)

La paura mangia l’anima (Angst essen Seele auf) (Rainer Werner Fassbinder 1974)

Le Berceau de cristal (Philippe Garrel 1976)

Meshes of the Afternoon (Maya Deren 1943)

Paris, Texas (Wim Wenders 1984)

Roulette Cinese (Chinesisches Roulette) (Rainer Werner Fassbinder 1976)

Teorema (Pier Paolo Pasolini 1968)

The Company of Wolves (In compagnia dei lupi) (Neil Jordan 1984)

The Watcher in the Woods (Gli occhi del parco) (John Hough – Vincent McEveety 1980)

Twixt (Francis Ford Coppola 2011)