zarteManu e Jakob sono due giovani fidanzati, disoccupati e senza fissa dimora, che vivono in una tenda da campeggio nel bosco. Ogni giorno, per tirare avanti, accudiscono le persone in difficoltà e danno loro servizi in cambio dei pasti. La ragazza fa da badante ad un’anziana donna (la signora Katz), mentre il ragazzo entra a far parte di una famiglia che ha da poco subito la perdita del proprio figlio a seguito di un incidente. Jakob finisce per affezionarsi alla coppia (Martin e Claudia) a tal punto da non volersene più andare. Da quel momento i rapporti fra i due iniziano ad incrinarsi. Fino a quando Manu non lo convince a fuggire, e a riprendere così la loro vita da nomadi.




Al limitare di una città tedesca, si trascina senza un senso apparente l’esistenza di chi ha scelto di vivere ai margini prima ancora che il sistema lo relegasse nei bassifondi. Un sacco a pelo per letto ed una piscina comunale per bagno, nel ventre buio di una foresta che, per l’occasione, si trasforma in una discarica a cielo aperto di sogni infranti.
Due “microrganismi”, in perenne regime simbiotico, si muovono apaticamente in questo ecosistema selvatico mettendo a punto una comune strategia di sopravvivenza. Individuano vuoti e mancanze altrui e si offrono per riempirli. Si insinuano con subdola cortesia nelle vite di pensionati e di genitori orfani di prole proponendosi come amici, figli surrogati o nipoti “adottivi”.

Come docili camaleonti si mimetizzano nell’ambiente, tentando con rigorosa professionalità di curare ferite aperte dal dolore, dal lutto, dalla solitudine. Teneri parassiti, appunto: «sopportano l’assenza di orientamento, non soffrono di vertigini e sanno adattarsi alle situazioni confuse, alla mancanza di itinerario e di direzione e alla durata indefinita del tragitto» (Bauman, 2008, p. X).
Incapaci di esperire le proprie vite, effimere ed insignificanti, succhiano linfa ai loro assistiti: si impossessano dei loro affetti, dei loro ricordi e perfino dei loro abiti (Jakob arriva ad immedesimarsi nel compianto Benjamin anche nell’abbigliamento). Sono disposti ad esaudire ogni loro desiderio, anche il più stravagante, anche ciò che esula dalle semplici faccende domestiche: un giorno i ragazzi fanno l’amore nel salotto della signora Katz, proprio davanti ai suoi occhi.

Tutto ciò senza spirito caritatevole, ma con freddo calcolo: quando l’anziana viene a mancare all’improvviso, i due occultano il cadavere ed usufruiscono per alcuni giorni della casa libera. Recitano quotidianamente una parte (Manu, sentendosi esclusa, si presenta a casa della nuova famiglia di Jakob come sua sorella), con la tenue speranza di assicurarsi una salvezza, pur precaria.
Fin dall’inizio l’ambiguità è il tratto dominante che contagia gesti, sguardi e silenzi. Un giovanotto biondo è seduto su un prato quando viene investito da un piccolo velivolo. Non sa (o forse finge di non sapere) che quella è una pista d’atterraggio e che il pilota è un ex manager facoltoso. Quest’ultimo, che avverte un senso di colpa per l’incidente, si offre di ospitarlo a casa sua. In cambio, Jakob (da bambino appassionato di aeromodellismo) l’aiuta a costruire un aliante.
Non sappiamo nulla del passato del ragazzo e del perché egli abbia scelto proprio il pilota come potenziale “vittima”, nonché “padre”. Sta di fatto che ciò che doveva essere una semplice pratica lavorativa si rivela una complessa “trappola” famigliare in cui esplodono sentimenti inespressi.

Levare. Questa è la parola d’ordine attorno a cui Becker e Schwabe intessono una storia scabra e concisa, dove il montaggio è essenziale e i dialoghi sono scarnificati. Concretezza dell’assunto e minimalismo dei toni. La regia dei due autori tedeschi si inserisce nel solco del “cinema dell’emarginazione” dei fratelli Dardenne, frattura (mai ricomposta) tra etica e idiosincrasie del sociale. Tra dignità della vita e dignità del lavoro.
Manu e Jakob come Rosetta e Bruno (L’Enfant): eroi di un’umanità non-stanziale che «vivono in una società dai contorni volatili, incurante dell’avvenire, egoista e edonista», dove «prevale l’accettazione del nuovo come buona novella, della precarietà come valore, dell’instabilità come imperativo» (Attali, 2003, pp. 92-94). Non fa differenza vagabondare tra le roulotte di un campeggio, sotto i ponti oppure nei boschi. La cinepresa è sempre lì, incollata addosso ai personaggi drop-out, che si sentono braccati, e “radiografati” nell’anima.

In Zarte Parasiten, riesce a cogliere bene le trasformazioni fisiche (i travestimenti) e quelle espressive, sottraendole per un istante al fluire rarefatto degli eventi. Nel finale, i due fidanzati, completamente rinnovati nell’aspetto, scappano e trovano rifugio in una località di mare. Qui la ragazza (che fa la cameriera in un bar) scorge un possibile cliente e lo propone al suo “socio”, sul cui primo piano sfuma l’immagine.
È il principio di un’ennesima avventura: «la vita liquida è una successione di nuovi inizi». (Bauman, 2008, p.VIII). Ma la ricerca della propria identità che - come sostiene lo stesso Bauman – «ha a che fare con le possibilità di “rinascere”, di smettere di essere ciò che si è per diventare chi non si è ancora» (ivi, p. XVI) appare ancora un cammino incerto e tortuoso per i due protagonisti.


Bibliografia

Attali J. (2003): Trattato del labirinto, Spirali, Milano.

 

Bauman Z.(2008): Vita liquida, Laterza, Roma-Bari.





Titolo: Zarte Parasiten
Anno: 2009
Altri titoli: Teneri parassiti;Tender Parasites
Durata: 87
Origine: GERMANIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM (1:1.85)
Produzione: RHEINFILM

Regia: Christian  Becker; Oliver  Schwabe     

Attori: Robert  Stadlober (Jakob); Sylvester  Groth (Martin); Maja  Schöne (Manu); Corinna  Kirchhoff (Claudia); Gerda  Böken (Sig.ra Katz); Max  Timm (Constantin); Rainer  Laupichler (Gunter)     
Sceneggiatura: Oliver  Schwabe; Christian  Becker     
Fotografia: Oliver  Schwabe     
Musiche: Aurelio  Valle     
Montaggio: Florian  Miosge     
Scenografia: Katja  Schlömer     
Costumi: Nicole Marie Pleuler

 

 

Reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=kQrAT1C0CZY

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