È evidente, palpabile, al termine della visione, come Ismael El Iraki abbia voluto riversare nel suo film d’esordio, Zanka Contact, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 77, un acervo di materiali – fatti di cinema, musica, dolore – non ancora del tutto processati, sminuzzati, trasfigurati. Come se l’urgenza di consegnarlo alle fiamme purificanti della narrazione, del cinema, (è lui stesso a parlare del film come di un “incendio incontrollato”, nato da un desiderio che lo ha “consumato come una fiamma che divora tutto al suo passaggio”) fosse più importante, in fin dei conti, di una raffinazione che lo avrebbe forse reso sì, più esatto e condensato, ma anche, plausibilmente, più freddo e consumato.
Giocando con l’archetipo (l’ex rocker ormai improduttivo e frantumato dalle droghe, la prostituta dal cuore non ancora vetrificato dal cinismo e dalle compressioni di una vita coartata, sottomessa, in mani altrui), con le citazioni, con i generi, l’immaginazione dell’autore (e dunque dello spettatore) viene sondata alla ricerca dell’emozione, del sentire che a quell’immaginario ha dato originariamente corpo e che poi il tempo ha cristallizzato in modelli e aggregato in categorie. El Iraki si muove come in un processo di addizione, di superfetazione, inscrivibile in un’incontrollata voglia di vita da parte di un giovane autore che vive da anni a Parigi e che lotta ancora coi fantasmi del Bataclan, al cui massacro è sfuggito per puro caso. Ed è per questo che a Zanka Contact si possono perdonare gli evidenti limiti di scrittura di una sceneggiatura che, fatto salvo l’incipit promettente e qualche gustoso frammento qui e lì, spende gran parte delle sue forze ed energie a furia di dimenarsi in discutibili elaborazioni e aggiunte all’ordito principale, lasciandosene subissare.