alt«E il Signore Dio disse:
“Non è bene che l’uomo sia solo:
voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”»
(Gen. 2, 18)

Lee Kang-sheng / Denis Lavant: iridescenti dioscuri protagonisti di percorsi cinematografici che ne hanno fatto incarnazioni fantasmatiche di quella che Bauman, ad esempio, definisce società dell’incertezza, o modernità liquida. Figure proteiformi che superano la logica dell’identità nel senso di una moltiplicazione dei processi di identificazione; chiamati a rappresentare «il mondo attorno […] tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati – abitato da -  vite […] frammentate in una serie di episodi mal collegati fra loro» (Bauman 2003, p.4).


Lee e Lavant sono corpi filmici fluttuanti, mai stabili, sempre soggetti a mutamento, rappresentazioni del nomadismo, dell’erranza: quella, appunto, che si distacca dalla pesantezza della stabilità. Viaggiano attraverso le esperienze. Circolano senza sosta in una pluralità complessamente articolata di concatenamenti fittamente intramati. Due performer i cui corpi reali si fondono coi rispettivi corpi immaginari, in un gioco di rimandi e auto-citazioni dove il presente riattualizza il proprio passato inglobandolo, reintegrandolo come elemento modulabile e declinabile all’infinito.
L’uno doppio speculare dell’altro, e viceversa, finalmente trovatisi a condividere il medesimo quadro per mano di Tsai Ming-liang che li fa entrambi protagonisti di Journey to the West, visione insperata, disperatamente desiderata dopo l’addio dichiarato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia con Stray dogs (2013).

Un monaco buddhista (lo stesso che ha, letteralmente, attraversato i quattro corti No Form, Walker, Diamond Sutra e Sleepwalk; che è apparso anche nella pièce Only You) procede in sospensione, con una lentezza che prescinde dal tempo, per Marsiglia. Tra la moltitudine incurante che avanza a passi cadenzati sulla ritmicità accelerata della città, un uomo comincia a seguirlo ricalcandone la camminata. Ne accetta remissivamente l’incedere acronico, perché «conoscere qualcosa che è altro da sé significa comprendere che è possibile soltanto andare verso ciò di cui vorremmo cogliere i segreti, nella coscienza di doverne rispettare il mistero» (Romano 2004, p.39). La radice di ogni reciprocità è nel riconoscimento dell’alterità. È l’incontro, l’intrecciarsi di una trama relazionale a dare senso allo spostamento.
Un’iniziazione etica a cui corrisponde un preciso gesto estetico tanto sul piano diegetico che su quello compositivo. Tsai non si mostra interessato a svelare l’interiorità dei suoi personaggi, ma rimane sulla soglia delle loro esistenze fisiche. Una così radicale dimostrazione di fedeltà al concreto da assumere i contorni della stilizzazione e della trasfigurazione astratta; una totale essenzialità fenomenologica che si rivela contemplazione trascendentale. L’artista sfronda l’aneddotica delle cose per distillarne l’essenza, lasciando affiorare il segreto che le abita.

Si è spettatori di «un cinema di pazienza e di attesa» (Neri 2006, p.75) che mette in discussione le dinamiche del linguaggio filmico recuperando modalità rappresentative dello xiey, tradizione pittorica cinese che riduce al minimo, con pochi tratti e con l’uso dinamico del vuoto, l’essenza stessa del fenomeno rappresentato. Xiey, che letteralmente vorrebbe dire “ritrarre il significato”, come scrive Corrado Neri, non possiede un corrispettivo occidentale1.
È quindi necessario porsi verso Journey to the West con lo stesso atteggiamento con cui Lavant segue il monaco Lee: entrare in consonanza con il suo ritmo, lasciandosi trascinare nelle sue derive, senza  la fretta di chiarire tutto subito, perché «chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità» (Gadamer 1960, p.316).

Tsai, in un inarrestabile processo di depurazione stilistica, che lo porta addirittura a rinunciare a certe marche stilistiche paradigmatiche del suo percorso cinematografico come ad esempio l’ossessione acquosa, conduce lo spettatore a confrontarsi con pure immagini, sempre più autosufficienti, ormai liberatesi quasi del tutto delle stampelle narrative.
 Questo svuotamento della componente tramica conduce lo sguardo a concentrarsi sulle strutture del discorso filmico. L’estenuazione della durata di ripresa, necessaria per cogliere l’impercettibile movimento dei due protagonisti, assecondata dalla profondità di campo, oltre che a presentificare lo sguardo che osserva, permette allo spettatore di affrontare la sequenza come se si trattasse di un quadro da esplorare, in cui l’occhio si perde; cosa che succede soprattutto nel campo lungo finale dove l’immagine che appare all’improvviso capovolta si rivela poi essere riflesso speculare: «questo atto di rifrazione determina una vera e propria ripetizione che non è né identità del Medesimo né equivalenza del Simile (bensì è) nell’intensità del differente» (Deleuze 1997, p.254).

«Come le stelle, un difetto della vista, come lampada,
Un finto spettacolo, gocce di rugiada, o una bolla,
Un sogno un lampo balenante, o una nuvola,
Così si dovrà vedere ciò che è condizionato».
(Sutra del Diamante)



Nota

1. «Questo concetto non ha mai trovato una definitiva traduzione in una lingua occidentale, nonostante le diverse proposte avanzate: astrattismo, realismo astratto, imagistic, imagism [...]. È evidente comunque ciò che lo xieyi non è: una categoria occidentale, tanto che pare irriducibile ai suoi schemi». (Cfr. Neri 2004, pp. 93-100)


Bibliografia

Bauman Z. (2003): Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari

Deleuze G. (1997): Logica del senso, Feltrinelli, Milano

Gadamer H.G. (1960) in Fornero G., Tassinari S.(2006): Le filosofie del Novecento, Vol. II, Mondadori, Milano, p.1028

Neri C. (2006): Past Masters, New Waves: Tsai Ming-liang / François Truffaut, in «Transtext(e)s Transcultures», n. 1

Neri C. (2004): Tsai Ming-liang, Cafoscarina, Venezia

Romano R.G. (2004), Ciclo di vita e postmodernità tra fluidità e confusione, in Romano R.G. (2004) (a cura di), Ciclo di vita e dinamiche educative nella società postmoderna, Franco Angeli, Milano





Titolo: Journey to the West
Titolo originale: 西游 - Xi You
Anno: 2014
Durata: 56
Origine: FRANCIA, TAIWAN
Colore: C
Genere: SPERIMENTALE
Specifiche tecniche: DCP
Produzione: HOUSE ON FIRE

Regia: Tsai Ming-liang

Attori: Lee Kang-sheng, Denis Lavant
Sceneggiatura: Tsai Ming-liang
Fotografia: Antoine Heberlé
Musica: Sébastien Mauro
Montaggio: Lei Shen Qing


http://www.youtube.com/watch?v=Y3h0WiMMOUE

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