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When the pilot was killed in Mogadishu or in Aden, you said that for each victim in Aden, we should execute a terrorist in Stammheim, in public. And that’s democratic?... You don’t care about laws, but you call yourself a democrat!
There are situation when you don’t care about laws, and you call yourself a democrat? Ordinary murders often act for the wrong reasons. But what worries you about terrorists is that you could understand them. How can there be situations when you don’t care who makes the law? And what laws! Democracy is a form of State which is the most humane, yes or no? Would authoritarianism be better?
(R. W. Fassbinder in (I) Deutschland im Herbst, AA. VV. 1977-78)


In The Postcolonial Museum, The Arts of Memory and the Pressure of History, precisamente nel capitolo Artist as Interlocutor and The Labour of Memory, si chiarisce come il lavoro che si impiega nell’attività del ricordo non è che valorizzazione stessa della memoria di tale lavoro, e, in questo senso, posto che attraverso la comunicazione,  lo scambio e l’informazione, la nota opposizione tra “lavoro vivo” e “lavoro morto” (Negri, 1989) trova una nuova forma, una nuova  riscrittura, possiamo dire che la visione dell’artista come interlocutoree comunicatore,  sia una possibile via non soltanto (e purtroppo) alla valorizzazione stessa del capitale ma in un certo senso anche al suo superamento. Come? L’azione del ricordare, e in particolar modo nella sua articolazione artistica, nel suo essere “lavoro vivo”, nel suo sprecarsi e sprecare, è punto di inizio per l’avvio di una (transitoria) politica della memoria. Soprattutto:  legittimare il lavoro del ricordo nell’operato artistico non è soltanto una maniera per riabilitare il ricordo collettivo stesso – che, in quanto memoria potrebbe avere a che vedere anche col suo esatto opposto, e cioè con la destrorsa idea di commemorare, museificare, (in una parola: cadaverizzare la memoria e l’arte) ˗  ma quella di offrire, semmai, un luogo specifico, insorgente e temporaneo per la lotta politica.

L’artista-interlocutore riporta l’allucinazione alla dimensione del reale rendendola condivisibile. Questa nuova memoria temporanea si oppone massivamente alla forma nostalgica del ricordo-feticcio, tanto che, nel suo darsi come lento e temporaneo spreco a venire, è forse unico strumento attivo atto a smantellare l’accelerato e purtroppo eterno sentimento di disinvestimento energetico e di narcisistica impotenza politica del movimento (Berardi, 2001). Appunto: memoria (del futuro) come infinito movimento: cambiamento (coscienza, lotta). Come può quindi, l’artista-interlocutore, abbandonare il narcisismo della sua autorialità (narcisismo che depressurizza il portato stesso della sua azione) senza divenire propagandistico, ma, diversamente, un agitatore? ˗˗ Lo spiega Rauning citando Lunacharsky: e così l'agitazione può essere distinta dalla propaganda dal fatto che eccita i sentimenti del pubblico e ha un'influenza diretta sulla loro volontà. E, per così dire, porta l'intero contenuto della propaganda al calore bianco per farlo brillare in tutti i colori (Rauning, 2008) ˗˗. Come può l’opera divenire territorio di pratiche anziché ridursi a solo oggetto resistente e rappresentante? E come può, un tentativo critico, mapparla in un al di qua da questa? Magari resistendo alla parola che confina…  In effetti, da qualche parte, leggendo tentativi e analisi su Une Jeunesse Allemande, avevo quasi colto l’imbarazzo dell’autore di poter essere anche solo astrattamente associato alla giustificazione di una simile violenza (ammesso che di violenza si tratti), che cercava così candidamente di dissociarsi e distanziarsi dagli avvenimenti contenuti…

La necessità di riportare l’attenzione sull’artista-interlocutore è da iscriversi in una visone che non deve limitare l’opera a una propaganda, ma anzi condurla verso una pratica estetica che è autonomia e nomadismo, forma adattabile e mutevole al cambiamento sociale. Questo vuol dire che le fresche capacità di un cinema resistente necessitano inglobare quella sempre nuova struttura tecnologico-comportamentale, lì a rinforzare una veloce interazione, una frammentazione, e un’esperienza del transito, anziché contribuire a un’eterna feticizzazione del mezzo. In poche parole, esempi di un simile movimento sarebbero gli ultimissimi lavori di Methaven, (Sprawl-Propaganda about Propaganda), di Adam Curtis (Hypernormalization) e Cristopher Roth (Hyperstition), il tragitto dell’immagine va di pari passo coi suoi canali; ma anche operazioni brandizzate come quelle del collettivo Non o Xenofeminism Manifesto dei Laboria Cuboniks. Insomma, sull’idea del mezzo non soltanto come arma ma corpo stesso a lavoro, e sull’idea di informazione molecolare: messaggi che si inviano, che si registrano, e così via (Lacan, 2011), c’è una esatta continuità con la lotta nell’azione artistica contemporanea che si infiltra nei legami di connessione, nei filamenti ormonali, nel DNA della parola… (What does propaganda in the Internet age look like?  o  Politics in the Age of Mass Art Production):

Acceleration is yesterday's delusion. Today you find yourself crashed and falling apart. You might try to occupy the square or bandwidth but who will pick up the kid from school? Your nerves are broadcasting emails into your molars. Someone tries to convince you to do a screening in broad daylight. Stop pretending there is electricity or enough time to watch that video all the way through. Stop pretending time exists. Stop pretending love exists. Stop pretending everything is fine because it really isn't. Are your teeth on twitter yet? (Steyerl, 2014).

Elter spiega come RAF sia stato probailmente il primo gruppo a fare un uso esteso di media avanzati, non soltanto come propaganda delle azioni in sé ma anche per la strategia stessa, resa possibile solo attraverso l’utilizzo di massive tecnologie: la logocrazia dei membri RAF: dalla brandizzazione del logo tipografico, alla scelta fotografica delle vittime, di loro stessi, dei filmati, l’approccio al cinema, le apparizioni di fronte alla corte, l’immaginario attorno alla loro prigionia (cfr. Sachsse). C’è in effetti qualcosa di molto simile al Minimanuale della Guerriglia Urbana:

Even this influence-exercised in the heart of the people by every possible propaganda device, revolving around the activity of the urban guerrilla--does not indicate that our forces have everyone's support. It is enough to win the support of a portion of the population, and this can be done by popularizing the motto, "Let he who does not wish to do anything for the guerrillas do nothing against them (Maringhella, 2011).

Da qui proviene una certa tensione all’immagine filmica, una rarefazione e un bagliore minimali, un’intensità della minoranza; il valore del male che Bataille addossa a Michelet, quel valore, appunto, che è libertà e varco per l’eccedenza, più lontano della maggioranza, del corpo sociale, più lontano e dove nessuno può andare, eccetto una minoranza, ed eccetto temporaneamete…

I often think of Holger

«Una volta, quando si parlava di Francesco Rosi, ho sentito Holger Meins dire che Rosi fa solo film per la televisione. Meins non aveva alcuna intenzione di lavorare per la televisione, ma soltanto per il cinema» (Farocki, 2004). A partire da quell’immagine di un corpo morto, il corpo di Meins svuotato e mediatizzato, Farocki in Staking One’s Life: Images of Holger Meins,  riduce la sua diffusione e il pubblico ludibrio, a una necessità da parte del sistema di giustizia  di tentare una possibile trasparenza per dissociarsi dalla repressione sul corpo di Meins. Appunto sull’idea di tassidermizzazione dell’immagine, la cadaverizzazione televisiva dell’immagine di questo corpo-cadavere che ora è Meins, il corpo-arma Meins, è qualcosa di estremamente politico e molecolare ˗ proprio nel senso cinematico del termine. E stranamente, e meravigliosamente è a questo che non cede Périot; la tassidermizzazione del corpo-arma Meins non è mai avvenuta. Mai riportata. Diversamente Starbuck (Conrad, 2001), muove cristologicamente da questa necrosi dell’immaginario defunto, quasi accettando quella morbosità che l’immagine capitalizzata molecolarmente diffonde, e persino diffondendola a sua volta. O il ciclo October 18, 1977 (Richter, 1988). The Baader Meihnof Complex, (Edel, 2008), come Elsaesser sostiene, nel cinematografico immaginario d’azione che supporta, rivela invece tutto il professionalismo hollywoodiano del team di Eichinger, con una ovvia caratterizzazione pop dei suoi personaggi, contribuendo così al feticismo nostalgico dell’immagine, al fascismo della rappresentazione iconica e archiviata, al suo monumento storico e al suo giudizio a venire. Qualcosa che Meins stesso tentava di eludere.

Tra l’immagine melanconico-nostalgica, la gangster story, la periodica volontà di depoliticizzare, demitizzare la RAF («ho deliberatamente orientato la camera vicino alle vittime, cosi da vedere cosa loro vedevano, per distruggere il mito che è cresciuto attorno alla RAF», spiega Udi Edel…), l’inautentico, il divismo: la fiction di Baader (Roth, 2002), If not us, who? (Veiel, 2001), Stemmehiem (Hauff, 1986), l’alleanza al soggetto continua quindi ad alimentare quell’unico immaginario cinematografico verso cui l’istanza in realtà deve combatte. Come dire, la distruzione del prodotto è la condizione della suo riproduzione. Ma occorre presupporre una sovversione del feticismo a cui la creazione lega, a partire dal carattere distruttivo come energia (della barbarie), e distinguere questo carattere distruttivo (e il suo positivo barbarismo), dalla violenza (fascista, dalla fascinazione del negativo). Benjamin lo dice, aprendo su una visione della critica stessa come strategia di lotta e sull’idea di carattere distruttivo che ben si allontana dalla semplice questione del creatore. E fu cosi: durante il festival di cinema sperimentale, durante la presentazione del film The White Hop Garden alcuni filmmaker della DFFB protestarono in sala col disappunto degli spettatori e del direttore, sabotando la visione:
«-  You work in film, not in politics! Political opinions can be formulated in films, but one may not express them openly.
But films are politics! They are dirty or political films… You must use your camera to take action and criticize».

A German Youth

Al di là del soggetto, dell’autore, della produzione, al di là della storia stessa, quel che Périot conduce è una trasmissione che cancella le sue tracce man mano che le disfa dinnanzi: la verità ha una storia che va portata alla luce, storia che non deve farsi archeologia ma presentarsi al di là del suo rappresentarsi. Sì, a parlare è ancora una volta la parola: il linguaggio è un sistema anonimo che non ha spazio per il soggetto (Focault, 2005), ragion per cui il suo tentativo (diviene ed) è cinema tra le ceneri di un cinema che cerca, crea e indulge sul significato, un cinema giudice, pre-giudice, ancorato al significato, al freak, alla selvaggeria dell’eteromorfo, un cinema condiviso, con-senziente; cinema-popolare, cinema-élite, insomma cinema che appartiene. Ma industriarsi nell’industria del cinema è anche in Un Jeunesse, nessuno sarebbe così folle da escluderlo… la frizione non è – banalmente – nel tema riottoso e ‘antagonista’, direbbe taluno, ma nella propulsione, semmai, da qui a venire: l’unità storica (ma anche a-storica) è destinata all’altro, non è di fatto origine ma destinazione. Non è la volontà a venir meno, ma lo spazio: nel liberarsi, dispone; è la disposizione verso cui muove, e cioè l’altro. Così per Barthes è il lettore l’altro in quanto luogo di concentrazioni; si tratta di rendere un lavoro abitabile: the work as a fabric of quotations, resulting from a thousand sources of culture (Allen, 2003), una liberazione, quindi ˗ per essere più precisi e concreti ˗ presumibilmente da un sistema che (comunque) lo vede presente, piuttosto che dall’autore stesso: lavoro come esperienza e filtro.

- È possibile oggi fare film in Germania? È possibile farlo da un punto di vista filosofico? È possibile creare immagini? Avere l’immagine, l’immaginazione? La Germania è capace di creare un’immagine?
Lo vedremo alla fine del film.

Gli estratti dal video-essay di Helmut Costard,  The Little Godard to the Curatorium Young German Film (1978) e di Green Beret (1967) di Carlos Bustamante, aprono questo insieme circolare di desideri confiscati. Non vi è mitologia, la pretesa non riguarda il mito (RAF), bensì un sentimento di là da questo ˗ evidentemente qualcosa di molto simile a certe operazioni della letteratura romantica, ovvero un’urgenza di negare lo Stato moderno attraverso l’esaltazione del passato. Ma qui non è trarsi in una evasione, il recupero del passato non è contemplazione di una rovina; non si parla in termini antiborghesi attraverso la lingua dell’individualismo borghese (cfr. Bataille). E sì, poco importa, qui l’inclinazione personale, poiché questo ‘personale’ è strumento collettivo, la responsabilità collettiva del cinema (o stato etico di un’immagine):

Quando la DFFB fu fondata nel 1966, la crisi del cinema era al suo picco. L’industria aveva previsto il superamento di tale crisi attraverso la riconciliazione dell’arte con l’economia. Una scuola deve creare una rinascita e formare tecnici specializzati per dare un fresco impulso all’industria della consapevolezza. Anziché mostrarsi degni di una tale concessione, gli studenti più dotati si sono rivelati dei ribelli di estrema sinistra.

Durante i nostri studi, ci esercitiamo a essere professionisti della rivoluzione, impariamo il nostro mestiere nella lotta di classe.

L’artista è filtro, interlocutore, a raccogliersi in frammenti passati per genealogie future. La ricerca di Périot, da Nous (2016), We are Becoming Death (2014), The Devil (2012), #67 (2012), al bellissimo L’art Deliquate de la Matraque (2009), Eut elle eté Criminelle (2006), malgrado l’eccessiva logica descrittiva, la didascalia, l’avvenimento, che, persino nei found footage ci appare così sincronico e contemporaneo da indurci una puerile quanto retorica identificazione, malgrado questo, ecco, la macchina rivendica il suo essere. Non spettacolo: nessuna violazione, nessun campo, ma la combinazione e una inquadratura che agiscono e rivelano la politica dei corpi; corpi primitivi che costringono, per dirlo impropriamente alla Bazin, lo spettatore a fare da sé una scelta. E tuttavia, l’avvenimento viene presentato fin qui, in un rapporto con la realtà che è sì una differita, ma pur sempre volutamente limitato, determinato e fruibile nel suo valore d’uso e consumo in quanto forma cronistica. Insomma, seguire il filo del discorso non è necessariamente solo retorica, insistenza o insufficienza. Supporre l’utilizzo di un linguaggio entro cui i rapporti sembrerebbero farsi, è persistenza di una lingua minore, adattamento, utilizzo di questa: non è certo eludendo il mondo che la contemplazione avviene, ma forse, è in questo scivolare lo splendore dell’insufficienza minoritaria di una lingua.


Bibliografia

G. Allen (2003): Roland Barthes, Routledge, NY.
G. Bataille (2006): La Letteratura e il Male, SE, Milano, Italy.
F. B. Berardi (2001): After the Future, AK Press, Edinburgh, Oakland, Baltimore
Ed. N. Brenez, I. Marinone (2015): Cinémas libertaires: Au service des forces de transgression et de révolte, Presses Universitaire du Septentrion, Paris, France.
T. Elsaesser (2014): German Cinema - Terror and Trauma: Cultural Memory Since 1945, Routledge, NY.
H. Farocki (2004): Working on the Sighlines, ed. T. Elsaesser, Amsterdam University Press, Amsterdam.
M. Focault (2005): Antologia. L’Impazienza della Libertà, Feltrinelli, Milano.
M. Frey (2013): Postwall German Cinema,  History, Film History and Cinephilia, Berghahn Books, USA.
J. Lacan (2011): Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino.
E. Leslie (2007): Walter Benjamin, Reaktion Book, London.
A. Lunacharsky (1988): Revolution and Art, in: John E. Bowlt (Ed.), Russian Art of the Avant-Garde: Theory and Criticism 1902–1934, London: Thames & Hudson 1988, 190–196.
C. Maringhella (2011): Minimanual of the Urban Guerrilla, Praetorian Press, USA.
A. Negri (1989): The Politic of Subversion: A Manifesto of the Twenty First Century, Polity Press, Cambridge.
G. Raunig, (2007): Art and Revolution Transversal Activism in the Long Twentieth Century, Semiotexte, Los Angeles, USA.
AA. VV. (2014): The Postcolonial Museum, The Arts of Memory and the Pressure of History, Routledge, NY.
AA. VV. (2008): Pouvoir Destituant, Les Révoltes Métropolitanes, La Rose de Personne, Mimesis, Udine, Italy.


Sitografia:

http://www.rafinfo.de/index.php
http://www.e-flux.com/announcements/31290/hito-steyerl-junktime-at-home-workspace-program-beirut/
http://www.ruedigersuenner.de/bustamante.html
https://www.youtube.com/channel/UClsL5pKndia2MGMXztUgJWQ
https://www.youtube.com/watch?v=AUiqaFIONPQ
http://hyperstition.org/


 

Titolo: Une jeunesse allemande
Origine: Francia, Svizzera, Germania
Anno: 2015
Durata: 93'
Colore: B/N, C
Genere: DOCUMENTARIO STORICO
Specifiche tecniche: DCP
Produzione: LOCAL FILM

Regia: Jean-Gabriel Périot

Soggetto:
Jean-Gabriel Périot
Musiche: Alan Mumenthaler
Montaggio: Jean-Gabriel Périot

Riconoscimenti

Reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=m4-B9TudXrs

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