Nel realizzare nel 1994 Lothringen!, il regista Jean-Marie Straub aveva tratto ispirazione dal romanzo Colette Bodauche dello scrittore e politico francese Maurice Barrès, facente parte della trilogia Les Bastions de l'Est. Sedici anni dopo, riprende in mano il progetto e si dedica a un secondo libro, Au service de l'Allemagne, e si reca in Alsazia per percorrere i sentieri attraversati da Joseph, il medico di campagna, protagonista dello scritto.
Corneille-Brecht ou “Rome, l’unique objet de mon ressentiment!”, Schakale und Araber (Sciacalli e arabi), Un héritier. Non è certo la prima volta che Jean-Marie Straub pone la sua attenzione al dramma geografico dei confini, ma è da Fortini/cani che non rilevava con così chiara comprensione della crucialità in gioco, la tragica questione di queste linee immaginarie, sulle quali per esempio sembra volersi di nuovo arrestare e collassare la storia d’Europa.
Brecht e Kafka ricordano subito come l’irruzione della Storia sia così silenziosa da richiedere, quasi sempre, lo schianto improvviso degli spari. Declamati in stanze opache, tagliate da ombre che sembrano forgiate direttamente all’incrocio ottico fra le finestre e i fogli in lettura (vetro luce carta), questi due film (declinati, com’è ormai prassi dell’ultimo Straub, in una due tre versioni differenti) cercano e tracciano la frattura in atto, rispettivamente il giudizio e il sogno del giudizio. Infiltrandosi e insieme scivolandosi fra le ombre – l’ambiguità del giudizio di Dio, che avvenga nell’aldilà o nel deserto – ottengono una trasparenza quasi tragica.
La verità è che a un certo punto l’Europa ha considerato la democrazia alla stregua di un riflesso condizionato (sarebbero da analizzare certe ricorrenze fra ciò che ne segue: a un capo i totalitarismi d’inizio Novecento, all’altro la dissoluzione comunitaria ed economica dall’89 a oggi: ma per esempio un Bataille fu accusato, anche da Benjamin, di fiancheggiare i fascismi, quando scriveva, nel lontano 1937, “La democrazia, che si basa su un equilibrio precario fra le classi, è, forse, soltanto una forma transitoria; essa porta con sé non solo le grandezze ma anche le miserie della decomposizione”), costellandosi di zone critiche e di fratture non ricomponibili e con cui hanno sempre buon gioco i nazionalismi d’ogni tipo. Forse è per questo che Straub con Un héritier sente la necessità di dare un seguito a Lothringen! (non a caso a partire dal ‘nazionalismo’ di Maurice Barrés, che riteneva la difesa delle radici una domanda d’apertura al mondo). L’allargamento dei confini alsaziani come simbolo del restringimento delle libertà, come nuova questione linguistica (che resta la questione dei popoli), come perdita e insieme rivendicazione assoluta d’identità (e la diaspora notturna il 1 ottobre 1872 di tutta la Lorena francese per non diventare tedesca, non ricorda l’espropriazione delle terre e la cacciata dei palestinesi dalle loro case? Ma, appunto, le fratture si moltiplicano e si richiamano in più punti della storia).
La scelta autobiografica si fa allora sempre più pressante, non tanto per fare i conti con la vita, ma per dire che non c’è fatto altrui che politicamente non ci riguardi. Così se in Schakale und Araber la voce di Straub interviene quasi a coincidere col taglio netto e col nero veemente che interpretano magistralmente l’irrappresentabile crudezza abbacinante di Kafka, in Un héritier Straub è per la prima volta fisicamente in scena, prima di spalle, in una lunga walseriana passeggiata nel bosco alsaziano, poi al tavolo di un’osteria, avviato verso una obliquità che fa trasalire e che lentamente gioca ad uscire di scena.
Uno Straub mai visto? Forse. Forse però questa sua presenza dura, granitica, rocciosa è ancora l’insegnamento memorabile e fondante di quando il confine riguardava lo svolgimento di coppia: Straub-Huillet. E cioè prima di tutto il rispetto del mondo come è arrivato fino al momento della ripresa (fino a quando appunto la Storia e la storia personale irrompono). E poi l’attesa, l’attesa non della ripresa giusta (meno che mai adesso che anche Straub, pur di filmare, fa a meno della pellicola), ma di quella che fa vedere come è difficile essere giusti e denunciando in sé l’ingiustizia. Qui si annida la verità, nella forma difficile e cruenta della perdita di memoria, eppure nel rilancio (invero più ironico che malinconico, ma questo è il rigore impareggiabile di Straub) di due semplici domande: chi siamo, da dove proveniamo.
Titolo: Un héritier
Anno: 2011
Durara: 22'
Origine: Francia/ Corea del sud
Produzione: Jeonju International Film Festival, les Fées Produnction, Belva Gmbh
Regia: Jean-Marie Straub
Interpreti: Joseph Rottner, Jubarite Semaran, Barbara Ulrich
Fotografia: Renato Berta, Christophe Clavert