«Viviamo con esseri che noi stessi abbiamo creato, baciamo fantasmi, difendiamo spettri: discutiamo d’arte con lupi mannari, trattiamo d’affari con spiriti, andiamo in giro con ombre di persone mai esistite».
(Contessa Maria degli Obrapali - Stanislaw Ignacy Witkiewicz)

Fra le tante zone d'ombra che tatuano la straordinaria Messa da Requiem “Napszállta” di Laszlo Nemes ve n'è una che trascende l'onirico: nella cappelleria ove cerca rifugio la giovane Irisz Leiter, con la speranza di ravvivare il cordone ombelicale, vi è un segreto degno di Poe: una saletta murata da quando l'imperatrice Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, la nota Sissi, provando copricapi, perse uno spillone. E se quello spillone fosse in realtà il pugnale dell'anarchico Luigi Lucheni che le diede la morte nell'angiporto ove sostava il battello per Montreaux? Sì, perché il crepuscolo degli Asburgo-Lorena gronda, copioso, sangue...


Danze Macabre

Le diavolerie della Marchesa Luisa Casati a volte tendevano al sinistro. Era certamente il caso di una particolare ossessione infantile che riemerse agli inizi del Novecento. Luisa aveva già mostrato una predilezione per le copie umane, come provava il manichino a grandezza naturale che aveva messo al tavolo del barone e della baronessa de Meyer a una cena a Venezia. Ma durante questo periodo venne in possesso di una statua di cera di Mary Vetsera, triste protagonista della nota tragedia di Mayerling, uccisa da Rodolfo, principe ereditario e quindi primogenito della disgraziatissima Sissi. Questa perfetta riproduzione era stata commissionata da un erotomane viennese per soddisfare i propri desideri feticisti subito dopo il fatale avvenimento. André Germain, amico intimo di D’Annunzio, descrisse l’incontro con la statua nel suo libro Les fous de 1900: «La Casati amava le sorprese. Apriva un armadio e all’interno ci trovavi una baronessa Vetsera di cera…La poveretta sembrava quasi viva, prigioniera di questa marchesa crudele».

La Marchesa Casati, eccentrica “performer” ante litteram, sarebbe stata la protagonista ideale delle opere del polacco Stanslaw Ignacy Witkiewicz (1885-1939), profeta della Catastrofe, che col suo grottesco esercito di nobildonne “demoniache”, come la Contessa Spica Tremendosa, o Sofia dei Becerò Cremlini, seppellì con una stranita risata la nobiltà mitteleuropea, ponendo una definitiva pietra tombale sulla cosiddetta “Finis Austriae”. Esattamente come la Contessa Rédey di Laszlo Nemes, resa folle dalla vedovanza.


I cannibali

La cappelleria Leiter ha l'abitudine di scegliere, ogni anno, una fanciulla per un compito importantissimo: giunge la volta di Irisz che si troverà, ex abrupto, fra i sontuosi marmi del Palazzo Imperiale a Vienna. La sensazione di palpitante minaccia che ha accompagnato sino a qui il film, si fa parossistica: la corte, osservata con grandangolare possanza, sembra annusare, famelica e sovreccitata, la ragazza che sfugge all'inquietante invito di entrare in una sala avvolta dalle tenebre. Lo sguardo di quei nobili mostruosi non è dissimile da quello dei parenti di Margherita ne I cannibali (1988) di Manoel de Oliveira, pronti a tramutarsi in famelici orsi di pezza dopo essersi cibati delle carni del Visconte. Witkiewicz avrebbe detto a mo' di epigramma: «Voglio essere santa, inviolabile, e al tempo stesso voglio essere squarciata da un milione di abbracci di orribili uomini sconosciuti, che si scannino a vicenda per il mio corpo. Voglio essere impalata e sferzata dagli scudisci di animali umani, mostruosizzati dalla bramosia».
Buio in sala.

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