altTempo e corpo, figura dell’assenza

Quella di Hou Hsiao-Hsien è un’immagine che si muove per mancanze, per assenze, va e viene lungo l'annerimento di gallerie e barbagli antelucani (Dust in the Wind), che ritornano (Goodbye South, Goodbye); scorre attraverso lumi e fumi d’oppio, tra battiti di palpebre (Flowers of Shanghai) che assopiscono la luce. Fluisce notturna, cadenzata da neon che fuggono dentro gli occhi, voltati a scrutare in volto lo scorrere lucente del tempo nel breve e lacerato tempo della carne, dando vita ad un’immagine discontinua, a salti1, per poi dissolversi, cadere nel buio (Millennium Mambo). Sono queste cadenze (dell’immagine) a lenire (e desiderare) la ferita della luce, come se fosse l’immagine a guardare, a battere le sue palpebre, ad annullare le distanze che separano luoghi e tempi, e a ricongiungere l’incessante vagare dei corpi, smagati ma desideranti per viali, paesaggi ed epoche Taiwanesi.


La stessa luce apre Three Times, la stessa cadenza che è di luci, sguardi, parole, di rintocchi musicali, è nel suo dirsi, nel suo scandirsi: tre tempi, accaduti (1911, 1966, 2005), tra tempi caduti, lungo una galleria temporale che si fa questa volta movimento secolare, nei rapporti tra corpi, tra terre. Tre incarnazioni dell’eros, uguali (Shu Qi, Chang Chen) e differenti, nei tempi, nei luoghi, afone nel dirsi, frementi nello scriversi, poiché: «quantunque sia incapace di enunciarsi, di enunciare, l’amore vuole nondimeno clamarsi, declamarsi, scriversi ovunque» (Barthes 1979, p. 67). Ed è questa corrispondenza, di carte, di desiderio, di legami a legare le assenze, le lontananze, nel cinema di Hou, a ripresentarsi costante in questi tre frammenti amorosi, come nei gangli della passata filmografia: emblema ne sono le lettere che legano (e frantumano) il rapporto fatto di assenza, di Ah-yuan e Ah-yun in Dust in the Wind (1986).

A Time for Love (1966)

In Three Times sono queste lettere, carni del pensiero, a dar voce, a sfiorare quel corpo amato «in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; […] per vocazione migratore, errante» (ibidem, p.33): come lo è il corpo di May (e lo sarà quello di Mr. Chang, di Jing), sfuggente tra quei verdi panni dei biliardi che dopo aver rasentato la filmografia di Hou trovano un proprio luogo in questo primo frammento, sognante in ogni suo sguardo, momento sospeso. È questo il luogo di un primo sfalsamento temporale (che sarà organico, strutturale), di un tempo anticipato, dell’incontro tra May e Chen che viene prima di avvenire, fuori tempo, fuori dal tempo poiché d’amore.

Sotto questa prima lampada Chen corre già anelante in bicicletta, rincorso dalla sua ombra, con una lettera da consegnare che vuol spargersi oltre la sua carta, poiché se come ripete Chen «il tempo vola», la scrittura vuol cantare, farsi in-canto e allora smettere la sua superficie e volteggiare dietro un’assenza, dietro una mancanza che colora del verde dei biliardi l’immagine intera, dietro May, sfuggita, mancata, ma in fine liricamente lambita, carezzata; poiché «il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l'altro. È come se avessi delle parole a mo' di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole»(ibidem, p.77).

A Time for Freedom (1911)

Un lirismo che nel giro delle tre volte, dei tre tempi, da questo frammento volutamente centrale, poiché lacerante, vocalizza pizzicando le corde vocali come corde di un piccolo pipa, riaprendo la frattura di Taiwan: scissa dal suo corpo (continentale) nell’anno di gestazione della sua repubblica, privata di se stessa (ceduta per trattato al Giappone), sofferente come una cortigiana che bramante del suo riscatto non può far altro che varcare con la sua voce il campo muto delle immagini, cantando di un dolore di ritorno nelle carni.

Questo sud di se stesso che è Taiwan è qui proteso verso quel corpo mancante con cui Mr. Chang, in viaggio fuoricampo e di rientro, anelante nelle sue lettere, vorrebbe ricongiungersi, dimenticando la sua carne, mantenuta lontana e servile, poiché non è ancora il tempo della libertà ma è ancora il tempo del dolore. A ripercuotersi è la storia politica che è storia dei corpi, che nel cinema di Hou si tramandano, si reincarnano ineluttabilmente scissi, presi a bastonate dalle forze di governo, rieducati disciplinarmente, deprivati della propria lingua e della propria cultura, dunque doloranti e senza parole; provati nel corpo, tastati nella conformazione fisica come la precoce e candida ragazza, germoglio, fiore venturo (Flowers of Shanghai), di già protesa a strimpellare il piccolo pipa e a canticchiare di quel dolore che non tarderà a venire.

A Time for Youth (2005)

Tutta la sostanza densa di questa frattura sembra riversarsi in Jing, figlia prematura, cantante di un nuovo millennio, disancorato, ancora vacillante tra i neon (Millennium Mambo): soffio al cuore, epilettica, fratturata fin dentro le ossa, quasi cieca dall’occhio destro. È dunque in questo corpo confinato in una conclusione filmica, destinato ad un’occlusione, che ritorna la caduta dell’immagine, una caduta visibile, esterna nel mascara , nella fragilità, interna nella percezione, nell’istante in cui Jing si copre con una palpebra a cinque dita l’occhio sinistro, abbandonandosi in un rannuvolamento opaco che non comprende tempo, che è il tempo di un deliquio erotico.

Questo oscurarsi dell’immagine (e della luce), nell’assenza, nel montaggio lieve, sfumato, in quel nero che separa la luce (e le immagini), la frammenta, non sembra essere un esito involontario del montaggio ma un nero politico, gravido, una cadenza corposa, politicamente rilevante. E dunque questo cadere dell'immagine, che spesso è cadenzata (le luci che scandiscono come lancette del tempo le gallerie buie), contiene in sé il cadere tutto del corpo caduco, che lascia dietro di sé, nel tempo, una sua presenza, un suo essersi sfregato, randagio, con il mondo (che è l'immagine, che è la luce), un suo averlo carezzato, lambito.

È questo nero ottenebrato, che non ferisce, che non riferisce, a dover essere letto in Hou Hsiao-Hsien, ed è in questo senso che va letta la voce sfalsata, fuoricampo, dunque presente, in Millennium Mambo (2001), come la volontà di ricucire con il passato, di ricolmarlo con l’immagine, di illuminarlo, di illuminare l’oscurità facendo riemergere l’immagine intera, scintillante. Questa oscurità, questo nero lacerato, echeggiante più che mai in Three Times, sembra contenere in sostanza l’attimo e l’eternità, il disgregamento e lo sfrangiarsi della terra, delle distanze, della carne, nell’assenza di tutte le cose che «ritorna come una presenza: come il luogo in cui tutto è sprofondato, come una densità d’atmosfera, come una pienezza del vuoto o come il mormorio del silenzio» (Levinas 1997, p.18). Ed è dunque questa oscurità, che è, ancora, assenza (della luce, dell’immagine, del corpo), l’unica terra a poter accogliere come una pupilla, a poter riferire, a poter ferire ancora gli occhi, poiché diceva Barthes (d’amore, non si può far altro) «il linguaggio nasce dall’assenza».


Note

1 Benjamin direbbe: «gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. […] il viso rivolto al passato», con cui è in rapporto dialettico, in una galleria, in un passaggio, che temporale lo è già nell’architettura.»


Bibliografia:

Barthes R. (1979): Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino.

Levinas E. (1997): Il Tempo e l’Altro. Il nuovo melangolo, Genova.



Titolo:
Three Times (Zui hao de shi guang)
Anno: 2005
Durata: 132'
Origine:
Francia, Taiwan
Colore: C
Genere: DRAMMATICO, SENTIMENTALE
Specifiche tecniche: 1.85 : 1
Produzione:
3H FILMS, ORLY FILMS, PARADIS FILMS, SINOMOVIE

Regia: Hsiao-Hsien Hou

Attori:
Qi Shu (May / Courtesan / Jing); Chen Chang (Chen / Mr. Chang / Zhen); Fang Mei (Old Woman); Shu-Chen Liao (Madam / Jing's mother); Mei Di (May's mother / Madam); Shi-Shan Chen (Haruko / Ah Mei); Lee Pei-Hsuan (Hostess / Micky)
Sceneggiatura: T'ien-wen Chu, Hsiao-Hsien Hou
Fotografia: Ping Bin Lee
Montaggio: Ching-Song Liao

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