Leonardo Gregorio
Ana ha appena scoperto che il suo cancro è terminale. Jack è da poco uscito di prigione ed ha disperatamente bisogno di soldi. Harold viaggia in autostop all'inseguimento della sua passione. Non hanno nulla in comune oltre a non avere nulla da perdere. Per questa ragione e per un paio di bigliettoni i tre incominciano un viaggio insieme...
[dalla brochure del film]
In The Passage c’è un’immagine, breve indugio, che s’impone come un quadro di devastante disperazione, un affresco degradato che in qualche modo condensa le traiettorie emotive ed esistenziali del film: una faccia d’Obama gigante, virata warholianamente sulla scritta Hope, speranza, e di fianco, contro lo stesso muro, un uomo su una sedia a rotelle, un homeless probabilmente. Tutto immobile, l’uomo e la speranza.
Perché, dice Roberto Minervini − regista marchigiano, emigrato da tempo negli Stati Uniti, prima a New York, poi a Houston −, «ci sono due sogni americani: il sogno americano dei ricchi che vogliono arricchirsi di più e il sogno americano dei morti di fame che vogliono mangiare». Lui sa da che parte stare, quelle del suo cinema sono storie ai bordi, assimilazione di pezzi di biografia altrui, di vissuto doloroso o sospeso, e rielaborazione (con mano leggerissima) in fiction. Un cinema fatto di herself e himself, tra parentesi, come si può leggere nei titoli di coda dei suoi film. Molti degli “attori” vi scorrono nel ruolo di se stessi o, da non professionisti, vengono adagiati su vere esistenze, sporcandosi di reale e assumendo straordinaria vividezza. Qui sta la chiave di volta di un metodo che non lascia scelta, se non quella dell’adesione palpitante, spesso totale.
Ana di The Passage, malata di cancro terminale, tira a sé nel sarcofago della tac, nel verdetto frontale e finale del medico, nella morte che la veste ormai come un sudario. Si soffoca con lei in un’estate terribile che non ha pietà per chi trascina i propri piedi nelle sabbie mobili (erranza asfittica affine, ad esempio, a quella della protagonista di Estate romana di Matteo Garrone). Il suo passo stanco, il suo respiro-rantolo tolgono l’aria dai polmoni e le lacrime dagli occhi. Così si è soli. Così si è disperati. Ana è sola (come lo era Wendy in un film bellissimo, smarrente, Wendy and Lucy di Kelly Reichardt, regista che nel labor di prosciugamento ricorda Minervini), fino a quando incontra Jack, appena uscito di prigione, un loser che inutilmente cerca di mettersi in contatto con suo figlio. In cambio di denaro, l’uomo − perduto come e diversamente da lei − accetta di accompagnarla da padre Alberto, un veggente tetraplegico che parla per bocca di Gesù Bambino. Per una strada ormai di piombo, ma molto più avanti (quando ormai sono passati più di 50 minuti di film), Ana e Jack s’imbattono in Harold, in trasferta per realizzare le sue timide aspirazioni artistiche, che si unisce a loro. Rimasugli di road movie (highways, deserto, empori aperti giorno e notte, fattorie, nulla) in un’America marginale, lontana dal Centro, assolata e desolata, senza epica, eppure ancora viva, solidale. Il singhiozzo di attraversamenti, soste, ripartenze, la dismissione di corpi e luoghi, le frasi, i volti, l’anelare in dialettica, impossibile integrazione. Tutto con il laconico, lento fraseggio di immagini d’occhi rapiti al vuoto.
Ed è un girare in stato di grazia (e di umanità), quello di Minervini, che raschia il cuore, ottunde le orecchie, concede granelli di amore che sono una valanga, gocce che sono mare. Quell’acqua primordiale in cui il regista immerge, sul finire del film, Ana, ormai spogliata di parrucca, abiti, tempo, diventata − un momento prima di tornare alla Natura − dello stesso colore dello stagno dove riceve l’abbraccio dei suoi occasionali compagni di strada. Luce d’oro scintillante, bagliore sabbioso del sogno e della fine. In mezzo c’è stato il viaggio fino alla fine della speranza che, nella sua inesorabilità, è stata la cosa migliore che la vita sembra averle donato, o almeno la vita recente. Non resta che andare, ritornare al grembo, dissolversi in un gesto d’amore qualsiasi, infinito, che ha la pulsione contraria di quello (sempre acquatico, sempre d’abbraccio) finale tra madre e figlio in Low Tide (2012), secondo capitolo della trilogia texana aperta da The Passage (2011) e chiusa da Stop the Pounding Heart, fuori concorso a Cannes 2013.
Pochi anni e una manciata di film per dirci che il suo cinema è (già) necessario, visioni paradigmatiche di aderenza al reale − alla sua pregnanza, al pulsare muto e mutante delle cose −, cinema che ha un che di straordinariamente misterioso, sfuggente, sotterraneo, e come sospeso nell’incedere minimo di un’atmosfera che si libra sull’indeterminato. In attesa di uno scarto fragile, sono immagini retrattili, nonostante il mostrarsi in superficie, il farsi nell’evidenza di un’estetica documentaristica − dunque immediata e al contempo distante − a velarne l’essenza più profonda, dove la macchina da presa si divincola dentro le divaricazioni appena visibili o impercettibili fra l’identità dei soggetti deambulanti, persi, e il loro fare.
In questa contemplazione silenziosa degli spazi, dei corpi, del loro errare in dislocamenti in avanti, laterali o circolari, cresce la radicale compresenza resistente di un cinema miracolosamente ispido e dolce, insieme, scabro e umanista. Cinema che si insinua nelle pieghe di un pedinamento oscillante fra Zavattini e Gus Van Sant, che assorbe brandelli di realismo dei Dardenne e rifrazioni di luce malickiane… fino a ritornare, dentro solchi rosselliniani, alla vita.
Titolo: The Passage
Anno: 2011
Durata: 89
Origine: USA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: PULPA E POLIANA PRODUCTIONS
Regia: Roberto Minervini
Attori: Soledad St. Hilaire, Mean Gene Kelton, Alan Lyddiard, L.A. Young, Juana Rodriguez, Alberto Salinas
Sceneggiatura: Denise Lee e Roberto Minervini
Fotografia: Diego Romero Suarez-Llanos
Montaggio: Marie-Hélène Dozo
Riconoscimenti