Una superficie d’acqua immota all’apparenza viene astrattamente percorsa da animali, dall’animalità che siamo capaci di esprimere quando gravemente feriti.
Clover torna a casa, nella campagna del Somerset, Inghilterra. E qui, tutto l’impianto della fattoria di famiglia ci dice che è in atto una dislocazione, uno spaesamento. Un’abitazione che non è agibile e, dunque, vuota, a causa di un’alluvione; un container dove essere provvisori ontologicamente, un bestiame che viene continuamente spostato, un cane affamato dimenticato in uno sgabuzzino tra i suoi escrementi.
Dov’è la casa, dov’è il cuore e, soprattutto, dov’è la verità? Tutto il film è dedicato a sistemare gli accadimenti che al principio hanno un solo punto fermo: Harry è morto disgraziatamente giovane. E sua sorella Clover lo piange in una macchina, disperata. I suoi passi solitari nei resti di una festa terribilmente ossimorica con un funerale da preparare innescano l’inizio di una ricognizione soprattutto dentro se stessa, nella propria storia di giovane donna. Di figlia di un padre di granito, di una famiglia scomposta, slogata, minata dai lutti, dal non detto.
E, poi, la ricerca della colpa, anche questa da sistemare, attribuire. Gira intorno a queste grigie fangose giornate la medaglia nera della responsabilità da appuntare per la morte di Harry, scomparsa che è la fine di futuro per il padre, la definitiva sconfitta per la sua fattoria che sta andando in malora. Chi ha seminato il decadimento, chi ne ha fatto messe? Il genitore padrone o la figlia con la sua fuga, la scelta di diventare una veterinaria, quella di non toccare mai più carne pur essendo figlia di un allevatore di vacche? O, alla fine, proprio il figlio della speranza, quello che si è piantato un fucile in faccia?
Sembra citare la parabola del figliol prodigo questo The Levelling, solo che è la stessa Clover – una intensissima, implosa Ellie Kendrick, la Meera Reed di Game of Thrones – a sacrificare con le sue mani il vitello; non c’è un padre che, al ritorno di lei, con un sorriso la accolga, anzi, ce n’è uno che la scaccia e carica di dolore su dolore, come ha sempre fatto.
«Non voglio che sia colpa tua», grida la figlia al padre. E di lui diventa a un certo punto madre. Quando nell’abbraccio dolente e salvifico, nella caduta più profonda si può cominciare a redimersi.
Dopo aver lavorato accanto a Todd Solondz in Palindromi, dopo aver realizzato cortometraggi e lavori televisivi, arriva l’esordio cinematografico di Hope Dickson Leach, autrice anche della sceneggiatura, film fatto di strati, incastri imperfetti, segni, oggetti, terra e sangue, di giorni e di notti, di pioggia, forse pure di sogni, di incubi. Implacabile eppure delicato, materiale e lieve insieme, racconto ruvido e dolce della perdita, delle mancanze, dell’amore. Ma è anche, e soprattutto, un film sul contatto, rimosso, ritrovato, necessario per sopravvivere, forse rinascere. E tutto questo avviene senza strumentalizzare il lirismo, senza farne mai un fine, ma piuttosto un accenno, un’ipotesi, una geometria inaspettata in un istante, uno svelamento improvviso, la possibilità di un futuro. Il corpo esanime di Harry è coperto da un lenzuolo bianco in una stanza, ma è solo la sua mano quella da cercare, da stringere. È il gesto che ci dice chi è Clover, ciò che lei non sa più di essere.
Titolo: The Levelling
Anno: 2016
Durata: 83’
Origine: Regno Unito
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: WELLINGTON FILMS, iFEATURES
Regia: Hope Dickson Leach
Attori: Ellie Kendrick (Clover Catto), David Troughton (Aubrey Catto), Jack Holden (James), Joe Blakemore (Harry Catto), Helen (Angela Curran), Reverend Trusler (Clare Burt)
Sceneggiatura: Hope Dickson Leach
Fotografia: Nanu Segal
Musiche: Hutch Demouilpied
Montaggio: Tom Hemmings
Scenografia: Sarah Finlay
Costumi: Tess Loe
Riconoscimenti
Reperibilità
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