altNel suo celebre saggio dedicato allo studio dei colori, Goethe propose uno dei primi esemplari di “cerchio cromatico” (in inglese color wheel) dove «i colori in esso diametralmente opposti sono quelli che nell’occhio si richiamano reciprocamente. Così il giallo richiama il violetto, l’arancio l’azzurro, il porpora il verde, e viceversa. Così anche le gradazioni si richiamano reciprocamente, il colore più semplice richiama quello più composto e il più composto quello più semplice» (Goethe 2013, p. 33). Incuriosisce il fatto che il secondo lungometraggio del giovane americano Alex Ross Perry, intitolato appunto The Color Wheel, sia stato girato interamente in bianco e nero, su pellicola 16mm. Dove sono i colori?


Partendo dal ragionamento di Goethe, si potrebbe ipotizzare che l’immagine rievocata dal titolo del film non richiami all’attenzione i colori, ma piuttosto la relazione di opposizione e richiamo che si instaura tra questi e che il cerchio cromatico generalizza. Il bianco e il nero, il chiaro e lo scuro, sono i due poli che permettono la formazione del colore. Quest’ultimo non nasce dalla loro mescolanza, ma tra di essi, dalla tensione tra luce e oscurità e dalla determinazione di questa tensione: il chiaro tocca e si sovrappone allo scuro, lo scuro tocca e si sovrappone al chiaro. Il luogo dove avviene questa unione è l’occhio: «la rètina, durante ciò che chiamiamo vedere, si trova contemporaneamente in condizioni diverse e persino opposte» (ivi, p. 24), tali da generare un confine, un margine dove luce e oscurità possono incontrarsi e dar luogo al colore.

Girando il suo film in bianco e nero, paradossalmente, Alex Ross Perry trova una maniera efficace per accentuare e rendere più visibili i colori e i contrasti alla base del cerchio e di tutta la natura. Per usare ancora le belle parole di Goethe, «in questo senso l’espirare già presuppone l’inspirare e viceversa, e ogni sistole presuppone la sua diastole. È l’eterna formula della vita che, anche qui, si svela» (ivi, p. 30). D’altronde, la storia narrata ruota proprio intorno ai conflitti, esterni e interni, che i due protagonisti, fratello e sorella, dovranno affrontare. Anche la struttura circolare della pellicola rimanda a quella del cerchio: il film finisce dove era cominciato – l’incipit-prologo si rivela essere il finale – con l’aggiunta di una brevissima coda che suggerisce il destino dei personaggi. E proprio come un cerchio cromatico, il film di Perry convoglia al suo interno generi, toni e atmosfere eterogenee che ne impediscono una precisa categorizzazione: se un primo momento si è portati a pensare ad una commedia, il finale implica necessariamente una rilettura dell’intero film in chiave drammatica. Si passa da sequenze di puro slapstick a fasi in cui il dialogo febbrile maschera tinte più fosche e cupe. The Color Wheel potrebbe forse essere definito un road movie, a patto che la direzione in cui procede sia quella contraria: se vi è un reale movimento nel film questo corrisponde a un ritrarsi.

Ma riavvolgiamo velocemente il nastro e partiamo dall’inizio della storia. Colin e JR, interpretati da regista e co-sceneggiatrice in persona, sono due figure sole e stravaganti, due autentici losers imbrigliati in esistenze mediocri: lui, un nerd che vive ancora con i genitori, più affezionato ai suoi gargoyles che alla sua fidanzata; lei, un’aspirante giornalista televisiva priva di concreta ambizione e forza di volontà, emarginata dalla sua stessa famiglia. Entrambi non particolarmente intelligenti, entrambi a tratti piuttosto antipatici, passeranno buona parte del film a punzecchiarsi e a litigare per cose futili in un grigio rapporto tra fratello e sorella. Eppure, saranno gli unici personaggi dell’intero film a dimostrare un briciolo di attenzione verso gli altri, un briciolo di umanità in un mondo dove l’egoismo e la fredda mentalità consumistica regnano sovrani. Goffi e spesso inopportuni ma pur sempre sinceri, attraverso lo sguardo affettuoso del regista, finiranno per acquisire uno spessore e una profondità d’animo, che in un primo momento sembravano impossibili. Quello che affronteranno insieme è un viaggio dantesco nell’inferno vuoto della periferia americana, scandito da tappe che coincidono con i luoghi simbolo di un Paese che (al cinema) si rese grande: il motel, il diner, la highway. E benché sia un susseguirsi di situazioni inequivocabilmente comiche che inducono alla distensione (la sequenza alla reception, quella nello spogliatoio, per limitarci a due esempi lampanti), dal fondo delle immagini preme una forza oscura, a metà tra il desiderio sessuale e la morte, che alimenta una crescente tensione interna. È qui che, mi pare, si manifesti più chiaramente l’influenza dei libri di Philip Roth, principale fonte d’ispirazione del regista, insieme al cinema di Jerry Lewis (cfr. Delorme – Elliott 2011, p. 86).

Si è detto prima, però, che la traiettoria che segue il film con i suoi protagonisti non sembra essere rivolta all’esterno, bensì alle sue viscere. Colin e JR, incapaci di integrarsi nel tessuto sociale che li circonda, sono (e si sentono) due esclusi, confinati dal regista in primi piani che li tagliano fuori dal mondo. La scena della festa, più d’ogni altra, è tragicamente esplicativa: JR si trova sola su di un divano, spalle al muro, di fronte a lei sono schierati come una corte marziale o un plotone di esecuzione i suoi ex compagni di liceo che, divertiti, conducono ai suoi danni uno spietato interrogatorio. Può darsi che quel che si vede sia una drammatizzazione in chiave grottesca di una realtà meno feroce, ma è in questi termini che viene vissuta dai due fratelli (seduti comunque vicino, come si scoprirà in un campo totale che chiude la scena). Ed è per questa ragione che il movimento del film si rivela essere di chiusura, culminando in un incestuoso finale. Poiché Colin e JR non hanno che loro stessi e amandosi, in un gesto che è estremo eppure semplicissimo, cercano un calore, un conforto che possono trovare solo nel loro stesso sangue.

Dopo un montaggio spesso scomposto e frenetico, che va di pari passo ai dialoghi veloci del film (qui il punto di riferimento è Cassavetes, penso soprattutto a Faces, mediato magari da Baumbach), Perry sceglie di usare un piano sequenza di quasi dieci minuti per raggiungere il climax della sua opera. Esattamente come avveniva nel primo lungometraggio del regista (Impolex, 2009), che però era più surreale, meno parlato e girato su pellicola colorata, il piano sequenza è lo strumento attraverso il quale si fa esplodere quella tensione percepita e accumulata per tutta la durata del film, smascherando e trascinando quest’ultimo in un terreno diverso, costringendo chi guarda a una revisione dell’intera pellicola. La scelta del cineasta americano di mostrare l’atto incestuoso è coraggiosa, laddove nel cinema normalmente questo tipo di pulsioni, quando presenti, non sfociano mai in un rapporto esplicito. Volendo indicare un termine di paragone, benché molto distante sotto altri aspetti, si potrebbe citare Bertolucci, nel cui cinema aleggia da sempre una tendenza di questo genere. Basti pensare a The Dreamers o al più recente Io e te, incentrati entrambi su di un rapporto fratello/sorella, morboso e selvaggio nel primo caso, più delicato e dolce nel secondo, dove l’attaccamento dei ragazzi nasceva sempre da una necessità di rifugiarsi e ritrovarsi nell’altro, lontani dal mondo esterno, barricati in un appartamento parigino o in uno scantinato romano. Oppure, per rimanere anche stilisticamente più vicini al nostro regista, si potrebbe nominare ancora Cassavetes che nel suo film-testamento, Love streams - Scia d’amore, opera un’analisi passionale e dolorosa del sentimento fraterno. Come si legge in un passaggio della monografia di Thierry Jousse che possiamo far nostro ed estendere a The Color Wheel, «forse la dimensione della relazione [tra i due fratelli] va ricercata sul versante dei grandi esempi letterari come Pierre di Herman Melville o L’uomo senza qualità di Robert Musil. Come Pierre e Isabelle, Agathe e Ulrich, Robert e Sarah sono legati da un attaccamento sotterraneo profondamente atipico e più forte di qualunque altro legame, amoroso, amichevole o familiare. Si direbbe che la relazione fratello/sorella riassuma e contenga da sé sola tutti i possibili rapporti che possono unire due esseri» (Jousse 2007, pp. 53-54).

Dopo aver creato il suo cerchio cromatico fondato su poli antitetici (luce/oscurità, giallo/azzurro, caldo/freddo, azione/privazione, forza/debolezza, …), Goethe notava che mescolando due colori opposti questi non si annullano ma generano un terzo colore: così, dalla commistione di giallo e azzurro, nasce il verde. Alla stessa maniera è possibile immaginare che il rapporto amoroso tra Colin e JR costituisca per i due fratelli un nuovo punto di partenza, che consenta a entrambi di affrontare la realtà con più consapevolezza, di rapportarsi all’altro in maniera diversa, di aprirsi. Così, nel finale, Colin riabbraccia la sua fidanzata mostrando nei suoi confronti un affetto inesistente a inizio film, mentre JR piange nella sua auto, rinunciando per la prima volta a quella corazza emotiva di cui era lei stessa artefice e lasciando libero sfogo alla sua fragilità. Nell’ultimo fotogramma del film una porta si apre.


Bibliografia

Dellorme S. – Elliott N. (2011): À la rencontre de la nouvelle scène new-yorkaise, in «Cahiers du Cinéma», 670, settembre.

Goethe J.W. (2013): La teoria dei colori, il Saggiatore, Milano.

Jousse T. (2007): John Cassavetes, Lindau, Torino.

 



 

Titolo: The Color Wheel
Anno: 2011
Durata: 83
Origine: USA
Colore: B/N
Produzione: DORSET FILMS

Regia: Alex Ross Perry

Attori: Carlen Altman; Alex Ross Perry; Bob Byington; Kate Lyn Sheil; Anna Bak-Kvapil; Ry Russo-Young; Craig Butta; Tom Brown; Kate Hollowell; Anna Margaret Hollyman; Keith Poulson.
Sceneggiatura: Carlen Altman; Alex Ross Perry
Fotografia: Sean Prince Williams
Montaggio: Alex Ross Perry
Musiche: John Bosch
Scenografia: Anna Bak-Kvapil

 

Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=gOtO8JBtxpE

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