taxidermiaTre racconti esemplari, tra loro legati da una contiguità generazionale. Nonno, figlio e nipote. Rispettivamente: un erotomane soldato magiaro; un campione nazionale d’abbuffata durante gli anni della dominazione sovietica; ed un rachitico imbalsamatore. Tre corpi accomunati dalla tara genetica della devianza. Tre vicende tra loro concatenate attraverso le quali tracciare la Storia recente d’Ungheria.

Il senso dell’operazione su cui poggia Taxidermia è definito per contrasti. György Pálfin riesce a trovare un improbabile equilibrio tra vertiginosi manierismi registici e una materia narrativa che sembra raccogliere, a mo’di fumante cloaca, ogni letame, ogni pantano, ogni lordura del mondo. La storia dell’Ungheria metonimicamente riletta per mezzo delle vicende di tre generazioni d’una famiglia magiara, con predilezione per le zone turpi e oscene della vita riprese attraverso la lente del grottesco e della provocazione. La devianza (erotica, alimentare, escrementizia), dettata da istinti e impulsi corporali, è la tara genetica che si trasmette di padre in figlio. Una lordura che viene ricercata ed esibita da Pálfin, che allestisce una messinscena ad alto indice di sgradevolezza.

Protagonista è il corpo, perlustrato nella sua carnale materialità e deperibilità. Il regista mette di fronte «alla tragedia delle funzioni, ai bisbigli delle secrezioni, […] al sangue che ruota, ai miasmi mortali, alle risse tra microorganismi, alle guerre spermatiche, […] alle piaghe, ai foruncoli scoppiati, ai serpenti di pazzia, alle cagne furiose della Fame» (Ceronetti 1979, p.36). Un corpo che va oltre sé stesso, esce dai limiti prestabiliti, tanto per eccesso quanto per difetto, in preda alle più animalesche pulsioni. Un corpo grottesco, secondo l’accezione bachtiniana del termine, «in divenire […] mai dato né definito”, un corpo che “inghiotte il mondo ed è inghiottito da quest’ultimo» (Bachtin 1979, p. 347). Corpo che si carica di una funzione segnico-idelogica. Del resto «esiste una coerenza tra la determinazione dei valori riconosciuti come fondamentali in una società in un certo periodo storico e il tipo di rapporto che essa instaura con il corpo» (Combi 1988, pp.50-51).

Ecco allora che il soldato erotomane dell’esercito magiaro, la più scalcinata tra le potenze dell’Asse, che tanto ricorda il Woyzeck di Büchner nel suo rappresentare lo sfruttato di tutti, la vittima del militarismo, sottoposto al superiore che si può permettere il lusso d’avere principi morali e la piena libertà di violarli, si evolve prima nel pachidermico figlio, campione nazionale d’abbuffata a oltranza, condannato a un ripetuto secondo posto che non metta in discussione i primati della gran Madre Russia, e poi nel segaligno nipote, virtuoso tassidermista votatosi al rachitismo come forma di ribellione nei confronti dell'ormai patetico e deforme genitore vittima del proprio glorioso passato ma circondato da un mondo che si muove in direzione contraria. Sferzanti metafore che raccontano lo storia d’Ungheria, da più di mezzo secolo relegata ad essere colonia degli imperi (prima il Terzo Reich, poi l’Unione Sovietica, e infine il regime capitalista).

La parabola compita da questi personaggi segue una traiettoria indirizzata verso la degradazione, il depotenziamento e la regressione. I protagonisti di Taxidermia perdono progressivamente contatto con il mondo, non più conoscibile in quanto dereallizato e esautorato da un’infinità di simulacri (soprattutto nell’ultimo segmento, quello relativo all’oggi, tutto animali impagliati, immagini televisive e cataste di cibi confezionati), come del resto loro stessi diverranno. Risultato di un processo d’inarrestabile disumanizzazione.

Anche dal punto di vista stilistico Pálfin opta per soluzioni registiche di crescente raffreddamento. Si passa dai toni fiabeschi e surreali del primo segmento (deliziato da immaginifiche trovate visive come uno schizzo di sperma che diventa la stella promessa alla piccola fiammiferaia; o una roteante vasca da bagno che nel corso del suo moto circolatorio si fa giaciglio ospitante nascita, crescita, procreazione e morte),  a quelli via via più realistici del secondo (rimanendo sempre e comunque fedele ad un’intransigente esasperazione grottesca), sino all’atmosfera da horror claustrofobico del terzo capitolo, che si chiude con un finale al di là di ogni possibile consolazione, sollievo, o speranza, visivamente sostenibile solo grazie al rigore estetico della messinscena:
«Esistono cose che non si possono conservare, in alcuna soluzione. È possibile impagliare il proprio padre, come simbolo di tutta la famiglia. Ma non ciò che si prova nel vedere la lama avvicinarsi alla propria testa. È una sensazione che non si può impagliare, questo fa parte dell’autentica storia di Lajoska Balatony e ne è l’essenza, credo. Ovviamente ognuno ha le proprie idee su ciò che è importante o meno. Per alcuni è lo spazio, per altri, il tempo».


Bibliografia

Ceronetti G. {1979}: Il silenzio del corpo, Adelphi, Milano.

Bachtin M. {1979}: L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino.

Combi M. {1988}: Il grido e la carezza, Sellerio, Palermo.





Titolo: Taxidermia
Anno: 2006
Durata: 90
Origine: UNGHERIA, FRANCIA, AUSTRIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: EUROFILM STÚDIÓ, AMOUR FOU FILMPRODUKTION, MEMENTO FILMS PRODUCTION, LA CINEFACTURE

Regia: György Pálfi

Attori: Csaba Czene (Vendel Morosgoványi); Gergely Trócsányi (Kálmán Balatony); Piroska Molnár (Moglie del tenente); Adél Stanczel (Gizella); Marc Bischoff (Lajoska Balatony); Gábor Máté (Kálmán Balatony anziano); Zoltán Koppány (Béla Miszlényi); Géza D. Hegedüs (Dottor Andor Regõczy); Péter Blaskó (Dottore); Péter Vida (Annunciatore); Mari Nagy (Infermiera); Réka Lemhényi (Allenatore); Lajos Parti Nagy (Bisnonno); Attila Lõrinczy (Sacerdote); Éva Kuli (Leóna); István Hunyadkürthy (Allenatore); János Gyuriska (Giovane tenente); István Gyuricza (Tenente); Iván Dengyel (Szvigadurin); Katalin Bene (Madre); István Znamenák (Éles); Karim Rahoma (Cassiere); Norbert Növényi (Allenatore); Anita Tóth (Interprete); Géza Balkay (Generale sovietico).
Soggetto: Lajos Parti Nagy (Racconti)
Sceneggiatura: Zsófia Ruttkay
Fotografia: Gergely Pohárnok
Musiche: Amon Tobin
Montaggio: Réka Lemhényi
Scenografia: Adrien Asztalos
Costumi: Julia Patkos

Riconoscimenti

Reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=F_TReXQ_K1M

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