Tatarak-Wajda-PALUCH2Durante le riprese di Tatarak, Krystyna Janda scopre che il marito, Edward Klosinski, collaboratore dello stesso Wajda, è gravemente ammalato. Il lavoro al film (il cui soggetto è tratto dal celebre dramma di Jaroslaw Iwaszkiewicz) coincide con la perdita di Edward.
Nel film Krystyna è Marta, una donna ammalata di cancro che incontra il giovane Bogus dal quale si sente irresistibilmente attratta e che perderà tragicamente. L’arte e la vita finiscono inevitabilmente per intrecciarsi in un film parzialmente recitato, in un racconto totale sul fluire.


a Tonia


«Loro marciano verso la battaglia. Noi fluttuiamo con i ramoscelli nella corrente;
confusi con le foglie morte del prato, irresponsabili e disinteressati
e capaci, forse per la prima volta dopo anni, di guardare intorno,
di guardare su – di guardare, per esempio, il cielo.»
Virginia Woolf


Il tempo della malattia è l’attesa che dilata le prospettive contemplando un punto di vista talmente altro da essere universale; il distacco che prelude all’invisibile si percepisce nella matericità dell’ombra che invade lo spazio lasciando filtrare la luce da un unico fuoco, a sostenere il monologo buio, il canto di una lacerazione.
Se è evidente la ripresa della nuda superficie hopperiana, le inquadrature di Wajda non tralasciano di accarezzare anche una profondità cupa, propriamente caravaggesca, che nell’uso di simmetriche filtrazioni luminose costruisce i piani, le prospettive e i punti di vista polari (l’arte e la vita) sempre riconoscibili ma diluiti nel lento abisso finale.
Jean Vigo naturalmente: l’immagine di Lei-sirena che svapora tra i drappi è un’evidente apparizione seppure il precipitare acquatico di Wajda è pesante, è un annegare del corpo che non smette di aggrapparsi alla superficie che sfugge, perché è la superficie a essere inafferrabile, ad affondare nella fine dell’apparizione.

Nel contorcimento dei piani si costruiscono continuamente ombre che vanno a fondo e riaffiorano alla memoria attraverso le voci che le ricordano, le scritture di diario e le riprese di un film che si intreccia al documentario di una vita, della vita che naturalmente finisce. È tutto un cadenzato ineluttabile precipitare verso un senza fondo: la malattia di Edward Klosinski ripercorsa attraverso le parole della moglie Krystyna Janda - attrice che nel film di Wajda interpreta un corpo di donna morente, una madonna che piange il figlio perduto (tra le sue braccia) per sempre – come pure il giovane corpo di Bogus che nella finzione si inabissa.
La vita vera di Krystyna è ripresa come un ritaglio immobile di esistenza: la sua voce nella penombra è l’unico elemento che si muove rispetto alla scena hopperiana a camera fissa; mentre la vita recitata di Marta è inquadrata da movimenti di macchina che le scorrono accanto, accompagnandola nel percorso della sopravvivenza. In una delle scene “fluide” del film, il processo di svelamento tra i due piani si fa palese: Marta abbandona il set proprio durante le riprese della sequenza del corpo che annega e, assediata da una pioggia fittissima, entra in un’auto che la porterà fuori (dalla finzione). L’atto della rivelazione avviene quando, dopo essere stata riconosciuta nel suo ruolo di attrice, Marta toglie la parrucca ma, rispetto a Krystyna, non c’è alcuna differenza, entrambe sono testimoni della scomparsa: la rivelazione coincide con questo niente da mostrare che si identifica nell’immagine che sale in superficie.

La malattia come la morte non sono che uno tra i molteplici punti di vista immersi nella incantata vastità del nulla, di quel tutto-intorno cioè che non ci appartiene e che si vede ora come per la prima volta. La scena della fine è di una leggerezza straniante, lì dove il respiro cessa l’afflato universale penetra intorno, ogni cosa si alza, la “marcia verso la battaglia” s’acquieta in un dolce fluire, sweet rush. Il cielo è visto come per la prima volta, lo scorrere del fiume e la sospensione aerea delle fronde, ogni cosa è percepibile nel suo movimento lieve, con la morte niente smette di mormorare, di salire a galla e di essere nell’abbandono.
L’urlo muto nel corpo di donna partecipa a questa pace mobile, la malattia che le cresce dentro nella finzione e che l’ha sottratta dal marito nella vita la rende una sopravvissuta, per lei l’attesa corrisponde al non-potere assoluto di qualsiasi intervento, con Krystyna-Marta cessa l’azione di chi assiste da tempo incalcolabile alla fine.
Lei resta in ogni caso, come una verità verticale, come l’immagine impalpabile della sirena di Vigo che non passa: è la superficie che non si afferra, perdendo i suoi affetti è lei stessa morente a farsi abbagliante scomparsa, a mettere in scena la levità di ogni corpo morto, a farsi limite estremo che galleggia, respiro che si consuma, sguardo sbarrato che fissa in memoria, per esempio, il cielo.





Titolo originale: Tatarak
Anno: 2009
Altri titoli: Der Kalmus; Sweet Rush
Durata: 85
Origine: POLONIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM, CINEMASCOPE
Produzione: AKSON STUDIO, TELEVIZJA POLSKA S.A., AGENCJA FILMOVJA, AGENCJA MEDIA PLUS

Regia: Andrzej Wajda

Attori: Krystyna Janda (Marta/attrice); Pawel Szajda (Bogus); Jan Englert (Marito di Marta); Jadwiga Jankowska-Cieslak (Amica); Julia Pietrucha (Halkinka).
Soggetto: Jaroslaw Iwaszkiewicz (racconto); Sandor Marai
Sceneggiatura: Andrzej Wajda; Olga Tokarczuk
Fotografia: Pawel Edelman
Musiche: Pawel Mykietyn
Montaggio: Milenia Fiedler
Scenografia: Magdalena Dipont
Costumi: Magdalena Biedrzycka

Riconoscimenti

Reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=Epxsptmzlds

Tags: