Yusuf dopo dieci anni di prigionia torna a casa. Ad attenderlo l’anziana madre, il vecchio amico Mikail e una donna.
La Storia irrompe granulare e sfuocata dalla prima schermata; una data, l’ora che scorre sgranata, una voce fuori campo sovrastante delle urla disperate, urla di protesta nelle dure carceri di un paese imprecisato della Turchia. Vivide immagini di repertorio che tornano durante l’arco della pellicola rianimate dalla memoria del protagonista, Yusuf, detenuto politico, giovane rivoluzionario che ha pagato la fede ai propri ideali con la libertà.
Sulla strada del ritorno a casa – libero a causa della sue gravi e irreversibili condizioni di salute – veemente appare la natura, una montagna si erge a strapiombo sul mare all’uscita di un tunnel oscuro, lungo dieci anni di vita, stride e spalanca le pesanti, cigolanti sbarre del carcere, Yusuf (ri)apre gli occhi.
Alper mostra subito le coordinate fondamentali delle sue immagini: una verticalità vertiginosa intessuta dal territorio scosceso e impervio, verticalità onirica – pacata, sussurrata, aleggia l’alone sognante della Lisbona del Sokurov di Padre e figlio – che coincide col piano di movimento, e di sopravvivenza, del protagonista stesso, sospeso in una costante tensione verso il basso – la città, l’incontro amoroso, il futuro – e verso l’alto – la cima della montagna, il vecchio amico Mikail, reminiscenze del passato.
Ricongiunzione col passato irradiata e abbagliata dal tramonto del sole su di una panchina davanti al mare, che invece in Ceylan appariva scialba e ingrigita, tutt’uno coi sentimenti di smarrimento, solitudine e (forse) pentimento di Mahmut (Uzak); un ritorno a ciò che è stato, attraverso un vecchio compagno universitario e di lotta; ritorno effimero, un barbaglio destinato a spegnersi nello scrosciare perpetuo della pioggia; poi la tempesta, ineluttabile, invade il molo.
Yusuf vive e sopravvive sospeso in un limbo smagato, esule nonostante il ritorno a casa, un povero villaggio nell’est del paese in cui l’esistenza è ridotta a grado zero, come prossima al primordiale e intrisa di morte, dove la vita lentamente appassisce: l’autunno.
La speranza di un futuro sedimenta nelle nozioni di matematica trasmesse al ragazzino, Onur, o attraverso l’innamoramento con la prostituta georgiana Eka, elusione della solitudine e tentativo disperato di aggrapparsi alla vita. Ma Yusuf è un personaggio uscito dalle pagine di una novella russa, come lo definirà la sua amante, abitante di un mondo distante dal presente, tanto da rinunciare alla fuga d’amore, da disattendere la (nuova) vita.
E il grumo poetico, custodito segretamente, rappreso tra le “grinze” della pellicola (fotogramma dopo fotogramma), emerge nel piano sequenza finale (tanto simile, nella sua dinamica, a quello che chiudeva Professione Reporter), in cui la macchina fluttua – s’impadronisce del film – passa dall’interno al di fuori: movimento lento, speculare a quello dell’anziana, accompagnata da una funerea zampogna, foriera di morte: oltre i vetri della finestra, un corteo funebre marcia tra la coltre di neve posatasi lungo il pendio, caduta silente e bianca a confondere i limiti, i perimetri dell’essere, a dissolvere la superficie, il contatto con la terra.
Titolo: Sonbahar
Anno: 2008
Altri titoli: Autumn
Durata: 106
Origine: TURCHIA, GERMANIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM
Produzione: KUZEY FILM, FILM FABRIK SPIEL-UND DOKUMENTARFILMPRODUKTION
Regia: Özcan Alper
Attori: Onur Saylak; Megi Koboladze; Raife Yenigül; Serkan Keskin; Nino Levaja.
Sceneggiatura: Özcan Alper
Fotografia: Feza Caldiran
Musiche: Yuri Ryadchenko; Sumru Agiryuruyen; Onok Bozkurt; Aysenur Kolivar.
Montaggio: Thomas Balkenhol
Scenografia: Canan Çayir
Costumi: Yas emin Taskin
Riconoscimenti
Reperibilità
http://www.youtube.com/watch?v=mVy1YrgVGcw