Adesso che è fatta, posso scriverne. Sinners ha superato di slancio i 300 milioni di dollari al botteghino, tra Stati Uniti e resto del mondo, polverizzando gli incassi, pure notevolissimi, dei due film più visti di Jordan Peele: Get Out, che finì la sua corsa a 255 milioni, ed il successivo US, atterrato a 256. Il raffronto è d’obbligo, perché Jordan Peele è l’uomo della discontinuità, è colui che ha rinnovato le narrazioni di genere, intrecciandole con la questione razziale negli Stati Uniti, trovando consensi della critica e di un pubblico vastissimo, multirazziale.

Il genere: lo chiamano black horror, cioè diretto o interpretato da afroamericani. Non è certo nato con Jordan Peele, ma con Peele si è elevato a fucina di blockbuster. Con Peele, e con una casa di produzione in particolare, la BlumHouse: una factory di film di genere, capace di intercettare e all’occorrenza di anticipare i gusti degli spettatori. In un post sul suo profilo facebook ufficiale, la BlumHouse mette in risalto le iniziali del marchio, B ed H, le stesse di Black Horror, facendo una carrellata del proprio sfavillante catalogo: Get Out, US, Nope – in quota Peele –, ma anche Swarm, Talk to Me, A Quiet Place: Day One, Nanny, Ma, Imaginary, Swarm, Exorcist: Believer, The Woman in the Yard. Alla faccia di alcuni critici di casa nostra, che nel passato recente hanno attaccato il produttore Jason Blum per aver banalizzato i film dell’orrore (!). Senza Peele, e senza Blumhouse, molto probabilmente non esisterebbe Sinners. In una lettera recapitata alla rivista Indiewire, il regista Ryan Coogler elenca il gotha dei suoi numi ispiratori; un elenco lunghissimo, assortito e commuovente per chi, come noi, si nutre di immaginari filmici. Per restare in tema affine al Black Horror, emergono i nomi di Bill Gunn, Spike Lee, Jordan Peele, Boots Riley, Nia da Costa, Wes Craven, Steve McQueen, ma anche Quentin Tarantino, Robert Rodriguez, e, unico non regista, Stephen King. Autori di opere che hanno riguardato la storia dei neri americani, ma è proprio la Storia, questa Storia, a fare orrore: «Black History is black horror», dice Tananarive Due, scrittrice ed insegnante di studi afroamericani presso l’università della California.

In successiva intervista, Coogler circostanzia ai primi anni ‘90 la nascita della sua consapevolezza che il black horror fosse la via. Si riferisce a film non più blacksploitation – sfavillanti e militanti ma rivolti, antagonisticamente, ad un pubblico di spettatori neri –, ma horror tout court, in grado di intercettare i gusti ed i pubblici più disparati, pur conservando forti impronte ideologiche e culturali. Per citarne alcuni: Def By Temptation, The People Under the Stairs, Tales from the Hood, ma soprattutto il Candyman di Bernard Rose. 

Una scena di Sinners - I peccatori di Ryan Coogler. Courtesy of Warner Bros. Pictures

A questi tasselli se ne aggiunge un altro, fondamentale per la genesi di Sinners: la leggenda del Vampiro Nero. The Black Vampyre: A Legend of St. Domingo è un racconto del 1819, di incerta attribuzione: pare l’autore sia tal Uriah Derick D’Arcy, secondo alcuni; Robert Charles Sands, secondo altri; secondo altri ancora, Richard Varick. Chiunque ne sia il padre, è certo che il primo vampiro della letteratura americana è nero. Come se non bastasse, la storia che lo riguarda è una storia abolizionista, che risale ai primi dell’Ottocento. Quattordici anni prima di An Appeal in Favor of That Class of Americans Called Africans, scritto da Lydia Maria Child, che è considerato il primo libro contro la schiavitù. Black Vampyre parla di schiavismo, da un’inedita prospettiva abolizionista. Parla di paganesimo e animismo, facendo diretto riferimento ai riti haitiani e dominicani. Muove anche critiche feroci alla società del tempo, mercantilista, protocapitalista, minata da tensioni sociali che rischiavano di rovesciarla, sotto la spinta dei diseredati e degli oppressi. Del resto, nel 1819 gli Stati Uniti si trovavano ad affrontare la più grave crisi economica del secolo, e i ricchi bianchi degli Stati del Nord temevano che gli schiavi del Sud potessero sovvertire il sistema, sull’esempio della quasi coeva rivoluzione di Haiti. Lea Anderson, saggista esperta di black horror, afferma: «The Black Vampyre è una lettura che si rivolge a un lettore bianco. È stata probabilmente ispirata da interpretazioni errate delle pratiche spirituali e del folclore africano, ed è strutturata per evocare nel suo pubblico bianco lo spauracchio di un mostro nero, sempre più forte e pronto alla vendetta». Sarebbe quindi una rappresentazione intrinsecamente razzista, dove il nero è la bestia da circoscrivere, o da rendere innocuo con concessioni quali l’abolizione della schiavitù, ma sempre nell’ottica della perpetuazione del sistema di potere e dei valori della razza bianca, ivi inclusa la religione cristiana.  Tuttavia, è anche una storia che coltiva l’idea proibita di un amore interracial, il cui frutto è il primo vampiro meticcio. Un testo così importante, suo modo rivoluzionario, è pressoché sconosciuto, persino nei circoli di appassionati di letteratura gotica. Rimosso. Assente dalle varie e dettagliate ricostruzioni storiche del mito del vampiro e non incluso in nessuna raccolta di racconti a tema, che siano classici o moderni. Altro che woke, altro che cancel culture!

Basterebbe questa lunga, lunghissima premessa per definire l’importanza del successo di Sinners, specie in un momento politico segnato da rigurgiti razzisti, sovranisti, fascioidentitari. Il fatto meraviglioso, tuttavia, è che stiamo parlando di un grandissimo film commerciale, quindi di intrattenimento, e non di un manifesto programmatico. Un’opera nata per divertire, e gravata pure dalla lettera scarlatta del “Rated R”, vietata cioè ai minori di 18 anni per i contenuti espliciti di violenza, sesso, religione. Forse, al giorno d’oggi, sarebbe vietato ai minori anche Nascita di una Nazione di Griffith, cui osiamo accostare il film di Coogler.

La storia, dunque. O meglio, il worldbuilding storico. Si è nel 1932 a Clarksdale, operosa cittadina sul Delta del Mississipi. Il Ku Klux Klan spadroneggia e massacra, le leggi razziali segregano, i neri si spezzano la schiena nei campi e pregano Dio, perché in un altro mondo avranno prosperità e libertà e giustizia (come no?). Tra loro c’è anche chi suona il blues, e c’è chi fa soldi con la mala. Sono i gemelli Moore. Reduci dalla prima guerra mondiale combattuta con l’esercito a stelle e strisce, poi gangster di chiara fama a Chicago, i Moore tornano a Clarksdale con l’idea di reinvestire i profitti di mala. Vogliono aprire un locale per neri – juke joint, si chiamavano così quei luoghi –, uno spazio dove stordirsi di blues, di whisky di malto e di giochi d’azzardo. Uno spazio profittevole, ma anche, evidentemente, un fortilizio comunitario, un avamposto di resistenza razziale e culturale in un luogo dove loro sono gli unici neri davvero ricchi. Hanno in testa solo il blues: la musica del diavolo, suonata da derelitti avvinazzati e debosciati come in una sorta di trance artistica, avversata dagli stessi pastori afroamericani, in quanto latrice di messaggi antitetici ai soliti, ultraconservatori valori della cristianità. Il fatto è che la Chiesa, quale che sia il credo o la confessione, vincola, soggioga, vive di pastori e quindi di pecore. Il blues al contrario divincola, scatena (letteralmente: spezza le catene), vive di cani sciolti. E i Moore, con assoluta chiarezza di idee e comunanza di intenti, vanno proprio alla ricerca di randagi del blues: mettono a libro piaga un vecchio beota, che con la chitarra è davvero un diavolo, e Sammie il loro giovanissimo cugino, figlio del pastore, ma con la musica “jind’a capa”. Il blues fa dondolare la testa, fa ondeggiare le anche: il blues è anche corteggiamento, è sesso promesso o consumato, in celebrazione di legami familiari che resistono anche alla morte, e urlano uno struggente anelito di eternità. I gemelli ci riescono ad aprire sto juke, e finalmente lo inaugurano. Parte la musica, e pare davvero un rituale pagano, con Coogler che non si tiene nelle visioni e produce una sarabanda di personaggi onirici che incarnano la storia di tutta la black music, da mamma Africa all’oggi dei (t)rapper. La sua è una dichiarazione di intenti: la musica blues è il filo rosso, è la protagonista indiscussa del film. Naturale (geniale) quindi che ci sia un’altra musica a fare da villain, da antagonista, ed imprevedibilmente è la musica folk irlandese. Si dà infatti il caso che i dintorni di Clarksdale siano sì pervasi da piantagioni di cotone senza soluzione di continuità, ma siano anche battuti da un antichissimo vampiro irlandese, braccato dai “pellerossa” Choctaw. Lui, Remmick, è un essere antichissimo, probabilmente venuto in America al seguito dei suoi conterranei irlandesi. Conterranei, ma non conquistatori, anzi, gregari e soggiogati dai dominanti Inglesi. Ancora nel 1932, se i neri occupavano il livello più basso della scala sociale, Irlandesi, nativi americani e Cinesi – presenti, in ruoli secondari ma non marginali, in Sinners – non se la passavano molto meglio. Coogler quindi rappresenta un’intera umanità sopraffatta, ma che vive e intreccia relazioni sociali e cerca di emergere. Quanto agli Irlandesi, il processo di emersione li portò quasi naturalmente a diventare vigilantes delle proprietà dei Wasp (White, Anglo-Saxon, Protestant: i discendenti degli Inglesi), e poi ad essere nucleo fondatore delle forze di polizia statunitensi. E sono proprio i poliziotti bianchi lo spauracchio, il babau che terrorizza da decenni la comunità nera: si pensi ai tumulti razziali degli anni ‘60 (guardate Kathryn Bigelow, guardate Detroit), ai moti di Los Angeles, a George Floyd ed al Black Lives Matter, agli abusi di potere denunciati da tanti registi ed anche, forse soprattutto, dallo stesso Coogler con il suo fondamentale Fruitvale Station. Che il vampiro sia irlandese, dunque, è una scelta tutt’altro che bizzarra ed estemporanea. È una scelta rivoluzionaria.

Il non morto, pur sempre bianco, trova protezione in casa di due onesti ariani affiliati al Klan, e con debita suzione ematica li trasforma in suoi consimili. Il suo appetito è insaziabile, al pari della sua passione per la musica. Con i nuovi scudieri, segue l’eco delle note ed arriva sul colle che sormonta il juke. Qui ha una visione, ma non del lauto pasto che lo attende (è un vampiro cosmopolita, quanto a gusti), bensì della balera che brucia e di tutti gli avventori che muoiono orrendamente carbonizzati. Una scena apparentemente decontestualizzata, che in realtà è un richiamo diretto a IT, il vero grande romanzo americano di Stephen King: nel ricordo delle atrocità commesse dall’entità, che si ripresentava a Derry ogni 26 anni, spicca infatti il racconto del massacro del Punto Nero, un juke pieno zeppo di afroamericani, sprangato dall’esterno e dato alle fiamme dalle solite canaglie, dal solito klan. «Black history is black horror», appunto. 

Il vampiro conosce le buone maniere, e come da lectio universalis non invade, ma deve essere invitato ad entrare in un luogo circoscritto, e questo vale ancora di più negli USA, con il totem sempiterno della proprietà privata. I gemelli ed i loro accoliti non si fanno ingannare dalle mentite spoglie e lo respingono, allora lui si mette a debita distanza e con i suoi compari comincia a mietere vittime tra gli avventori che, per esigenza o per inganno, escono dal Juke. Poi, mentre il suo esercito cresce, crea il momento più cult del cinema 2025. Intona, balla e canta una giga irlandese! Non una giga qualsiasi: la canzone è Rocky Road to Dublin. Racconta di un irlandese di campagna, del Connaught, che va a Dublino per una vita migliore, ma a Dublino viene emarginato e sbeffeggiato per il suo accento. Si reca allora a Liverpool, ma qui, dice «i ragazzi mi chiamano sciocco». Resta quindi in solitudine e povertà, fino a quando altri emigrati, della sua stessa contea, lo prendono a cuore. La canzone Rocky Road to Dublin, e la danza che la accompagnava, è stata a lungo vietata dalle leggi penali britanniche, basate anche in patria sull’oppressione e sulla cancellazione delle identità della comunità irlandese. Il vampiro racconta quindi di un’oppressione, di una vita ai margini, e lo fa per attrarre a sé altre persone – gli afroamericani – ugualmente oppresse, ugualmente ai margini. Contrapponendosi al blues, che è dei cani sciolti, offre un miraggio di rivolta degli ultimi verso i primi, ma la rivolta sarebbe in realtà una forma di nuova schiavitù, perché lui è un vampiro padrone, è il master, il capo, il dio della sua gente. E proprio come un dio sceso in terra, quando l’assedio al juke sta per concludersi vittoriosamente, ed i resistenti al suo interno stanno per capitolare, si arrischia a celebrare un battesimo pagano, immergendo più e più volte il Sammie nell’acqua di uno stagno, magnificando sé, la sua vittoria ed il suo futuro. Quando ogni speranza è vinta, resta però una chitarra, la chitarra, la depositaria simbolica dell’intera cultura afroamericana (legacy). È la chitarra di Sammie, meglio di qualsiasi paletto appuntito, meglio di una corona d’aglio, che si abbatte sul vampiro, e fa giustizia per tutti.

Non proprio tutti: sarebbe più corretto dire che pone un fine quasi lieto ad una notte di musica e orrore (e sesso, oh yeah!). Al sole del nuovo giorno vanno regolate le ultime faccende. Con il Klan, i cui adepti balleranno pervasi dal piombo mortifero di mitragliatrici da guerra. E con la Chiesa, con il pastore, il padre di Sammie, che gli chiede l’abiura alla musica, e la conversione ad una schiavitù dignitosa e remissiva. Ma il blues, fratelli, non si può fermare. Il blues è per sempre, ed è anche per quei vampiri morsi da Remmick ma che gli sopravvivono fino all’oggi, non morti, non visti, schegge notturne di una società che si ostina a non fare i conti con il suo passato.