Il titolo, innanzitutto. “Reflet dans un diamant mort”, in originale. “Reflection in a dead diamond”, in versione internazionale. In italiano si potrebbe tradurre la prima parola, la parola-chiave, con “riflessione”, invece che “riflesso”, e non si sbaglierebbe. Si parla infatti di un film che riflette, cioè, restituisce immagini speculari, e che al contempo elabora un pensiero, sviluppa un discorso programmatico su quelle stesse immagini.
Un’ambivalenza semantica senza dubbio intenzionale da parte dei registi Cattet e Forzani, che, a parte il primo, lapidario “Amer”, si sono prodigati in titoli perifrastici quali “Les etrange couleur des larmes de ton corp”, oppure “Lassez bonzer le cadavres”. Per restare al titolo, anche il “diamant mort” è una traccia guida. Come oggetto inanimato, il diamante non può essere morto. A meno che per “morto” si intenda “spento”, non più luccicante - e ci può stare -, oppure che per diamante si intenda metaforicamente una forma animata, capace di restituire una visione sfaccettata, addirittura tetraedrica. Il diamante sarebbe quindi l’occhio, che recepisce immagini – le riflette – e le assembla in modo composito e peculiare, irripetibile. Questa lettura sembrerebbe supportata, lungo tutto il film, da messaggi criptici eppure rivelatori, facenti riferimento ad occhi morti, anziché a diamanti morti. Teorie, suggestioni. È che il cinema di Cattet e Forzani è quintessenzialmente immaginifico, cioè crea immagini, un’ipertrofia di immagini, ed al contempo è cerebrale, crea percorsi, seziona le immagini e le analizza ad uso degli spettatori, come un’autopsia da grande schermo. La traccia è sempre la stessa: guardare alla genesi dei filoni italiani del giallo e dell’horror, dei mostri sacri Freda – Bava – Fulci – Argento, carpirne il dna e provare a generare un’opera viva, pulsante, brillante di luce propria. Per l’occasione, l’elemento vivificatore è tratto dai fumetti neri italiani, che hanno generato i summenzionati filoni. Diabolik, in primis. Risalendo poi, genealogicamente, ancora più indietro, al Fantomas francese. Retaggi, da coniugare con i discendenti di quella eredità. Cattet e Forzani si sono avvalsi della collaborazione di Emanuele Barison, firma di punta del fumetto italiano, disegnatore de Il Grande Diabolik a partire dal 2002. Prima di lui, avevano pensato a Francois Corteggiani, grande fumettista francese (La Giovinezza di Blueberry), scomparso nel 2022. Come Corteggiani, Barison è conosciuto per aver innervato di cinema il fumetto delle sorelle Giussani, per aver conferito un tono quasi registico al suo stile: vignette come inquadrature da grande schermo. Naturale coinvolgerlo in un’operazione di “reflet”, di riflesso-specchio, con inquadrature come vignette, come strisce di uno storyboard che fa di tutto per animarsi, per non sembrare “mort”. Lo stesso Diabolik, nel film di Cattet e Forzani, non è che un riflesso, se non un opposto: è femmina, è Serpentik, un mash up di immaginari tra il ladro in calzamaglia e la Satanik di Max Bunker.
Serpentik è una presenza sfuggente e fuggevole, è un’immanenza. Appare solo in poche sequenze, tra cui, un cult-issimo, efferatissimo combattimento da bar, e poi ritorna come nome sui media, sulle inquadrature delle prime pagine dei giornali (carta, appunto). Intervistati per Cinergie, i due registi hanno citato le loro ispirazioni cartacee ed anche la moltitudine di riferimenti cinematografici: non si tratta di meri omaggi e citazioni, ma di tasselli del loro metaverso visuale. Si sono soffermati, meritoriamente, su La Lupa Mannara di Rino DI Silvestro, per quanto in intervista lo menzionino come film francese anziché italiano. Poco male, la nazionalità è un attributo che si scolora nella riformulazione. Per usare un paragone, se Tarantino ha riformulato certo cinema in chiave avant-pop, trasferendo stilemi e icone in contesti altri, Cattet e Fozani lo hanno fatto in chiave avant-op, sublimando i contesti (i territori) originari e le forme artistiche che li hanno codificati, quindi immortalati. Segnatamente, riflettendo su e con la op art. Se il bianco ed il nero, come osserva Barison, sono le coordinate del Diabolik-verse a fumetti, in “Reflet” il bianco e nero diventano variazioni sul tema della optical art, che vanno a intersecarsi con la saturazione di una gamma cromatica iridescente, tra ambienti e suppellettili. La Costa Azzurra: il cielo, il mare, l’estate. Il rosso acceso, del sangue, del Martini, di un bikini. Il bianco delle pareti, dell’abito di Fabio Testi. I colori esorbitano, sono materici, trasformano la visione da ottica in aptica. Quella di Cattet è Forzani è un’esperienza di visualità tattile, che usa gli occhi come porta d’entrata per coinvolgere tutti i sensi. E’ cinema di senso, cinema dei sensi, come il cinema di Fulci, di Bava, di Argento, di Freda.
A questo mira il caleidoscopio cromatico generato in post produzione video, come fosse il riflesso di allucinazioni indotte da abiti di scena, traboccanti di pailettes assassine, una moltitudine – un tetraedro - di piccoli specchi dai bordi rotondi, taglienti, che colpiscono, uccidono, ma che restituiscono immagini di un altro tempo – morte – se guardate. La storia si dipana su due piani temporali: in uno, un redivivo, ottuagenario Fabio Testi, bianco vestito appunto, consuma il suo buen retiro in un hotel di lusso sulla Cote D’Azur, tra le stanze e “la plage”, finché non resta irretito da una giovane donna che appare e scompare (in senso letterale, “elle est morte”). La ricerca della donna, dell’assassino, dei moventi, lo porta a guardare dentro e fuori le stanze, dentro e fuori il suo passato da ladro di diamanti - rsvp Diabolik -, tormentato, ammaliato in un tempo e nell’altro pure dalla misteriosa Serpentik di latex vestita, Diabolik anche lei. I diamanti scatenano l’avidità e la bestialità, si moltiplicano gli omicidi efferati e le torture: la pelle viene incisa, escissa, così pure gli occhi. La traccia di questo Reflet resta nel solco dell’euro-spy-story, ma il gusto per la materialità e la corporeità – sensuale, mortuaria – dei registi sposta l’asse verso la horror story, macabra, sadica e pure ironica, smarcandosi in questo dalla severità priva di humour del Diabolik delle Giussani (ortodossia non seguita da Mario Bava, fortunatamente, e causa di sventura per l’infelice trilogia dei Manetti Brothers). A supportare l’intreccio del racconto, organico epperò farcito di schegge, una colonna sonora anch’essa tetraedrica: Ennio Morricone, Bruno Nicolai, Nora Orlandi, Piero Umiliani, Stelvio Cipriani.
Si resta ammaliati assorbiti attoniti dalla visione, si esperisce una metamorfosi radicale, un totale rovesciamento dei ruoli riflessi, lo spettatore è guardato, lo schermo guarda: è se fosse il riflesso dentro il diamante, se fosse quel cinema così pulsante ad essere vivo, eterno, e lo spettatore morto?