«E poiché a causa della pienezza del mondo tutto è connesso, e ciascun corpo agisce su ciascun altro corpo, piú o meno a seconda della distanza, e per reazione ne viene modificato: ne deriva di conseguenza che ogni monade è uno specchio vivente che si rappresenta l'Universo secondo il proprio punto di vista».
(Leibniz)
Vedere tutto è una tentazione in cui si rischia di affogare, la distanza che si accorcia con lo sguardo un’illusione che basta a creare una faglia nella monotonia dei giorni. Lo sguardo è questione rigorosa, richiede metodo e costanza per far sì che l’ossessione dell’incontro a distanza da illecito diventi rassicurante e abitudinario come il ritorno in una casa conosciuta: spiare da lontano per registrare le abitudini dell’altro, aspettare che venga la sera per introdursi in un mondo che lentamente si contribuisce a costruire, partecipare alla notte, vegliare sul sonno, prendersi cura con maniacale dolcezza di un corpo di donna sfinito tra le cose e nulla chiedere.
Come un magrittiano “telescopio”, la finestra spalancata sul buio riflette il fondo (di una piscina senz’acqua?)1che non si tocca ma si sfiora in punta di piedi, senza fare rumore; una profondità viscida che si allontana quanto è più prossima a essere afferrata, il punto esatto in cui la presenza si annulla e la condivisione dello stesso spazio diventa impossibilità realizzata o trasfigurazione onirica del desiderio. Non sogna lei che dorme: i gesti compiuti da Leon sono quelli di un sonnambulo innamorato, un fantasma silenzioso che si muove sicuro attraverso i muri e lascia ovunque tracce di una rassicurante e discreta assenza.
L’anello donato di nascosto diventa il simbolo di un legame invisibile che c’è finché non si percepisce, vivendo in uno stato di incosciente partecipazione, senza chiedere altra realtà da quella immaginata. Da fuori a dentro in un processo di graduale e faticoso avvicinamento si stringe il legame tra lo sguardo a distanza e il contatto con la pelle, per avvicinarsi quel tanto che basta a percepire che nessuna corrispondenza sarà possibile, per aspettare quel niente necessario per uscire per sempre da una casa che non è mai appartenuta.
L’unico accesso veramente proibito è quello dello sguardo dell’altro. Leon non può entrare dalla porta d’ingresso e alla luce del sole, ma da una finestra marginale e nel buio delle notti per poi cedere alla tentazione di vedere tutto e annegare. Non gli importa niente di diverso dalla partecipazione al sonno di lei che dorme e non sa. Sapere è il discrimine che annuncia la fine prossima di uno sbilanciamento di esistenza. Anna esiste solo per lui che la guarda e di cui ignora tutto; lei non sa di esistere per lui eppure finché lo ignora lei esiste e lui pure. Esistere nell’ignoranza senza cedere alla tentazione di vedere tutto e percepire la vita attraverso un’idea di finestra dalla quale non si vede a fondo sono le uniche strategie di sopravvivenza perché «se vedessimo davvero qualcosa non resisteremmo alla tentazione di buttarci di sotto» (E. Ghezzi).
Quattro notti con Anna non allude a una ingestibile passione, di quelle che si consumano in fretta, ma a un tempo in cui è negato l’accesso in un’altra esistenza: in quattro notti cambia la percezione di essere nel mondo e si raggiunge una nuova consapevolezza: non c’è “con” ma solo un “senza” Anna. Nel momento in cui lei smette di essere l’idea che Leon aveva creato diventa solo corpo violato da uno sguardo estraneo e qualcosa si rompe per sempre; gli elementi non si tengono, affondano nel fango, bruciano le cose intorno e di una finestra improvvisata davanti a un muro restano dentro solo pezzi di vetro che riflettono un’incolmabile distanza.
Così quando una presunta moralità giudicante lo interroga per condannarlo, Leon parla per la prima volta e solo per dire l’enormità verso la quale ogni lingua tende:
«perché hai fatto tutto questo?
Per amore».
Nota
1. Già in Deep end (1970), l’ossessione visionaria di Skolimowski per l’incontro che si compie fino in fondo (a “rischiarsi fino a raschiare il fondo di se stessi”, L. Esposito) tematizzava la piscina come luogo di un letale affondo nella vita dell’altro; evocativo non solo nel titolo è, allo stesso modo, il film di Wakamatsu, Una piscina senz’acqua (1982), interessante soprattutto per la cura dei gesti minimali compiuti dal carnefice a casa delle sue vittime. Cura che verrà ripresa, in un gioco di autocitazioni e riferimenti multipli (a Ferro 3 di Kim Ki Duk, per esempio), dallo stesso Skolimowski proprio in Quattro notti con Anna. ↑
Titolo originale: Cztery noce z Anna
Anno: 2008
Durata: 87
Origine: POLONIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO, PSICOLOGICO
Produzione: ALFAMA FILMS PRODUCTION, SKOPIA FILM, WILD BUNCH, TELEWIZJA POLSKA S.A., AGENCJA FILMOWA
Regia: Jerzy Skolimowski
Attori: Artur Steranko (Leon Okrasa); Kinga Preis (Anna); Jerzy Fedorowicz.
Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski
Fotografia: Adam Sikora
Musiche: Michal Lorenc
Montaggio: Cezary Grzesiuk
Scenografia: Marek Zawizrucha
Costumi: Joanna Kaczynska
Riconoscimenti
Reperibilità
http://www.youtube.com/watch?v=Irj2jSvUrjE