Who is the King of the Underworld?
Una lenta e agonizzante discesa negli inferi tra malavita, crimine e soldi sporchi. I bassifondi di Londra, latrina di sangue in putrefazione e violenza spietata, ospitano le guerre tra gang per la supremazia dell’Underworld. Nel 1930 due bande, l’italiana dei Sabini e l’inglese White, si contendono il dominio della criminalità londinese, lo sguardo si concentra soprattutto sulle vicende di Jack “Spot” Comer e di Billy Hill.
Come dichiara il regista, Simon Rumley, “le loro battaglie per diventare i re dei bassifondi londinesi, sono rimaste tra le più dinamiche e appassionanti della storia inglese a non essere state ancora raccontate. Noi le esploreremo in profondità, con abilità psicologica e con l’obiettivo di creare un’esperienza visiva unica, oltre che un grande film inglese”. Un racconto corale, di gesta, di corpi in lotta, di volti riflessi in altri volti, agguerriti, cupi e sanguinolenti, in una danza su un ring fantasmico, in pub fumosi che si accendono di bagliori cremisi. Simon Rumley, regista e autore poliedrico, mai legato ad un genere in particolare, ma abile a spaziare dalla commedia all’horror, è sicuramente tra i registi più sorprendenti dell’underground inglese. Vincitore nel 2017 del premio della critica al Ravenna Nightmare Film Fest, con il suo Fashionista, dramma sulla dipendenza e sulle parafilie, dedicato a Nicolas Roeg, con cui Rumley ha collaborato per Crowhurst (2017), film prodotto dallo stesso Roeg, il regista inglese torna al Ravenna Nightmare per presentare in anteprima nazionale, nella sezione Contemporanea, Once upon a time in London, suo nuovo lavoro.
Rumley porta in scena la spigolosità di personaggi rabbiosi che mostrano il loro lato oscuro, con cui è difficile, se non impossibile, empatizzare, rimangono chiusi nelle loro tenebre, tra tradimenti, odio e vite immorali, pronti ad uccidersi per dominare.
La messa in quadro è ematica, la fotografia, di Milton Kam, sia negli interni che negli esterni, opta per l’uso di filtri caldi viranti dal seppia a aranci crepuscolari; l’immagine sovente è sanguinante, inondata da vermigli plasmatici, il conflitto ferino e brutale è ridotto sullo schermo da luci che non sono mai rassicuranti ma accendono l’aggressività tra i corpi e negli spazi ospitanti. La narrazione è affidata al logos; la parola, fitta, serrata in dialoghi interminabili, insieme alla violenza è il tramite della ferocia umana. La verbosità ricca dei personaggi è la lama affondata nella carne putrida e putrescente nel marciume delle periferie londinesi; scorre come scorre il sangue, uccide come i proiettili conficcati nelle membra malavitose in bilico tra la vita e la morte solo per “divenire re”. L’efferatezza e la brutalità inquadrate e ritratte in punta di cesello, si srotolano su un tappeto sonoro presente in tutto l’andamento filmico, ulteriore personaggio in scena; l’allegro e costante boogie woogie è il sottofondo delle vicende criminose, dei calci, dei pugni e delle dispute per il controllo del territorio; le orchestre in scena fanno da contrappunto al massacro, rendendolo ancora più cruento, un po’ come accadeva in Cotton Club, di Coppola.
Once upon a time in London rappresenta la parabola di uno stile filmico ben preciso che possiede quegli stessi elementi spettacolari che sono propri del regista britannico: un senso preciso del ritmo, dell'ampia sequenza descrittiva, di una cura maniacale per i dettagli e dell'estetica della scena, misti ad un gusto per il particolare ambientale e ad una precisione psicologica nel tratteggio dei personaggi. Il cinema di Rumley brucia al fuoco della vita, fino ad esplodere dentro la carne, negli occhi, come un'apocalisse, e qui si fa estatica sperimentazione metafilmica dove l’immaginario si mescola al reale.