Tutto è liquido, acqua, fluidi, pioggia; lucide e umide gocce scivolano tra le ramificazioni tese, accarezzano il fogliame e irrorano radici ben salde nel soffice terreno immerso, in una ritmica sinfonia tamburellante. Una storia misteriosa, tra le tenebre, i lamenti di piante carnivore e incubi osceni nella circolarità dei movimenti della mdp che scruta i volti e ruota intorno al corpo, alla ricerca del sé, proprio là dove il corpo appare frazionato in frammenti scomposti dell’immagine, frames in cerca di un ricongiungimento. Mostri che emergono da un maelstrom paludoso, da territori liquidi, animati da correnti agitate nelle profondità, sotto una superficie apparentemente calma e vitrea, ciò che non si vede e non si conosce spaventa, per la sua diversità e per la sua unicità.

Il corpo è quello di Luana Muniz, la Regina della Lapa, figura iconica tra i gender e nella vita frenetica delle notti di Rio de Janeiro. Corpo politico, drammatico, in continuo divenire, una mappatura epidermica, specchio del territorio invisibile, ferino e notturno, come la città brasiliana, anch’essa territorio in trasformazione, e come gli esseri che la popolano.

“Io cerco la realtà attraverso i sogni” afferma Luana e subito la mente corre al godardiano “Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà”; realtà, cinema e sogno, deragliamenti dell’immagine su piani paralleli, dove se il reale è la base da cui partire, il cinema e il sogno veicolano lo sguardo tra fantasmiche presenze e spazi onirici nascosti nella membrana palpebrale dell’occhio. Gli spettri, presenze invisibili (Derrida), si muovono nella notte, nella città, al contempo infernale e edenica, nell’oscurità, tra i bagliori dei lustrini e i lampi dei fari che scorrono nelle strade, accendono il buio di colori sgargianti, accesi di vita e di morte. Trasformazione è morte e rinascita; per i travestiti la metamorfosi, da crisalide a farfalla, è alimentata dal sogno, dalla possibilità di essere ciò che si vuole, senza limiti, lontano dai margini della costrizione del dover essere. Eppure la ricerca della propria essenza si snoda nelle tenebre, un vagare nell’oscurità verso la luce, in un lungo percorso, quasi miltoniano, verso un paradiso che implica forzatamente un passaggio negli inferi.

Transgender, prostituta, attivista e artista, Luana Muniz, scomparsa nel 2017, a soli 56 anni, rappresenta la parte più intima e nascosta di una società complessa, ipocrita nel voler celare questa parte di umanità, tentando di confinarla solo nell’immaginazione, abusandone e rendendola invisibile agli occhi. La Muniz ha sempre lottato per il riconoscimento dei diritti LGBT e per tutelare le lavoratrici sessuali; come artista debutta con il musical Mimosa, ma la sua arte è centrata sul corpo e sulla sua geografia metamorfica.

Il tessuto epiteliale mostrato, esposto, oggettivizzato, come “oggetto urgente e urlante”, dipinto, venduto e orgogliosamente nudo, così com’è, così com’è stato desiderato e voluto. La pelle, confine ultimo tra l’anima e il resto del mondo, gelosamente conserva ferite, cicatrici e pieghe, si distende all’occhio altrui come trofeo, come una Nike vittoriosa, rivincita verso la cecità, il perbenismo imperante e, soprattutto, contro la violenza perpetrata nei confronti di quell’umanità borderline che vive ai margini della società brasiliana.

In bilico tra legalità e illegalità, tra le tenebre e la smania di luce, nel tentativo di brillare di un proprio sfavillante fulgore, la Muniz si racconta e racconta l’essenza del transgender, la sua metamorfosi continua nella libertà di poter essere ciò che vuole, in quella vie en rose che è stata la sua vita, in simbiosi perfetta con la sua città, Rio, piena di contraddizioni, come spesso ripete; una città che è allo stesso tempo paradiso, inferno, e soprattutto purgatorio di anime.

Presentato in concorso nella sezione documentari dell’ultima edizione del Lovers Film Festival di Torino, Obscuro Barroco, diretto dalla regista greca Evangelia Kranioti, ha ricevuto diversi premi, tra cui il Teddy Bear Award al Festival di Berlino, nel 2018; in bilico tra il documentario e la finzione, il film è un poema visivo, ondeggiante tra fluidi orgiastici e il corpo politico della Muniz.

In Obscuro Barroco, come già nella sua prima opera Exotica, Erotica, ETC., la Kranioti, grazie anche a una fulgida fotografia, curata sempre dalla regista, dipinge una tela centrata ora sull’immagine della Muniz ora su Rio, in una consonanza simbiotica ritmata dalla parola e dal suono, mentre la voce è melodia.

Nei close-up sul viso dell’artista, nei frames notturni di una città in continuo divenire, l’inquadratura è invasa da una tessitura emozionale e la mdp si fissa sulle mani di Luana, la bocca scarlatta, le dita che accompagnano alle labbra una sigaretta ardente e consunta, ma anche sul suo corpo, le gambe e i seni, sono uno spazio di vorticosa danza per la mdp. Eccitazioni luminose, colori accesi e fluorescenti che accendono l’oscurità di un’evanescenza così viva e pulsante da rendere visibile le pieghe più nascoste del reale e il mondo invisibile. La comunità queer brasiliana si muove nelle tenebre,tra le piume e le paillettes del carnevale di Rio e nei locali notturni, fiera della sua metamorfosi, come scelta autonoma e manifestazione di libertà del proprio essere, esattamente come la trasformazione politica rincorsa e desiderata attraverso le manifestazioni popolari antigovernative nelle strade cittadine a tutela dei diritti LGBT per il Brasile, dove si registra il numero più alto di omicidi tra i trans e nel mondo gender.

Una lirica di luccicanze che ruota intorno al crepuscolo e all’imminente albeggiare di rinascite, tra derive e galleggiamenti, dove l’oscurità si dipana per lasciare spazi, sempre più ampi, alla luce di un divenire fluido e mutevole, nel rispetto di ciò che è e mai di ciò che deve essere; questo è il poema di Luana Muniz, ode dionisiaca cantata alla vita nel suo tripudio, tra ombre e luminescenze, tra decadenza e barocchismi esasperati come fiori esotici carnificati.

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