«Ma allora qual è la verità? Quello che penso io di me, quello che pensa la gente o quello che pensa quello là dentro...».

Qual è la verità? Questo pare essere l’eterno interrogativo dell’uomo. Qual è la verità? Una domanda che si ripete come un’ossessione nel film NON È SOGNO di Giovanni Cioni - presentato in anteprima al Festival di Locarno e poi al Festival dei Popoli e vincendo poi il concorso del Laceno d'oro - che nasce dall’esperienza laboratoriale con alcuni detenuti del carcere di Perugia.

Si tratta di un documentario che assume la forma di una finestra affacciata su spazi possibili e inimmaginabili: perché se è vero che il cinema è una prigione per gli occhi (F. Kafka), dove anche l’inquadratura diventa sbarra che non si oltrevalica, è anche vero che esso diventa il fondo di un sogno che è possibile vivere; proprio per questo Cioni non ci mostra mai il luogo di detenzione se non accennandolo appena, non mettendolo mai a fuoco perché la prigione ha già preso vita negli occhi dei suoi detenuti, incastrati tra la vita e il sogno, e perché al centro del suo cinema c’è la condizione dell’uomo. Anche l’utilizzo della camera fissa in realtà diventa finzione poiché assistiamo a un continuo tentativo di evasione dall’inquadratura attraverso voci fuoricampo che liberano la scena da ogni sorta di confine.

Un film costruito attraverso le prove di questo gruppo di detenuti intorno al dialogo tra Totò e Ninetto Davoli in Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini e ai frammenti di La Vida es Sueño di Calderón de Barca; Cioni rimette in scena la parola provando a ferirla ulteriormente - parole dalla piaga sempre aperta direbbe Edmond Jabès -, a farne emergere il suo contenuto più limpido, a svestirla (anche qui) dal limite del testo recitato per raggiungere l’appiglio, svelando pezzi di vita, biografie di uomini, perché le parole si muovono e smuovono, e quando ce ne impossessiamo sembrano poter esprimere la verità che è più grande del vero e quindi (in)esprimibile.

«Che è la vita? Una frenesia. Che è la vita? Un'illusione, un'ombra, una finzione. E il più grande dei beni è poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni».
L’utilizzo del kroma key fa da scenario al corpo fisico dei suoi protagonisti che nella loro impossibilità di varcare la soglia delle quattro mura fa sì che il luogo divenga altro dalla sua realtà, annullandone i confini, generando così nuove possibili narrazioni che vagano come spettri perché tutto il film è mobile, un viaggio suddiviso in atti, quasi fiabesco in cui la strada si anima di presenze, colpe, timori e, forse, liberazioni.

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