È una ricerca espressiva sempre più radicale quella del cinema di Tsai Ming Liang che fa della lontananza il centro focale della visione. Lontananza dal grande schermo, mantenendo una promessa che aveva fatto sobbalzare qualche anno fa, e dai contesti originari ai quali sorprendentemente ritorna.



L’andamento impercettibile del monaco (il sempre presente Lee Kang-sheng) impone una nuova cronologia che, modificando modalità e velocità di spostamento, realizza il paradosso dell’annullamento della distanza da punto a punto. Si tratta di un cammino che abolisce il punto di vista – gli occhi sono chiusi, la testa abbandonata alla gravità terrestre, i piedi sembrano toccare altri pianeti – per tracciare geometrie lineari in spazi corrosi, affollati o claustrofobici che si liquefanno.
Se lo spazio in qualche modo si restringe nel cammino uniforme da Occidente a Oriente, il tempo si dilata per mancanza del battito ritmico del piede che tocca terra nell’attraversamento lento e randagio del mondo. L’esistenza temporale non è misurabile ma, per dirla con Ricoeur1, viene espressa secondo un modulo narrativo dettato dal lento, inesorabile spostamento senza meta. Il movimento, se pur impercettibile, lo denota come un cinema dell’azione, cioè del gesto ripetuto con sforzo da equilibrista e senza riposo.

Come una minuscola goccia di rugiada,
o una bolla che fluttua nell’aria,
come il bagliore di un fulmine in una nuvola estiva,
o una luce tremolante, un’illusione,
un fantasma, o un sogno,
così deve essere vista l’esistenza condizionata.

È il Sutra del Diamante che conclude il precedente Journey to the West. Minuscola, fluttuante, abbagliante, tremolante illusione è l’esistenza condizionata: ciò che la condiziona è una “visione” fugace che ne ridimensiona la gravità e altera i confini dei paesaggi tradizionali. La linea di confine tra cielo e mare, il perimetro di una piazza, il profilo delle montagne, la superficie irregolare di una parete cambiano forma, deterritorializzandosi a seconda della presenza o assenza del volto cartografico di Denis Lavant2 o dello spostamento asignificante del monaco. È lo stare al mondo alla maniera del fantasma, la percezione del reale come sogno che rende la videoarte di Tsai Ming Liang cinema elevato a potenza.
«Ma l’arte non è mai un fine, è soltanto uno strumento per tracciare le linee di vita, ossia tutti quei divenire reali che non si producono semplicemente nell’arte, […] quelle deterritorializzazioni positive che non si riterritorializzano sull’arte, ma la trascinano invece con sé, verso le contrade dell’asignificante, dell’asoggettivo e del senza-viso». (Deleuze, Guattari 2006, p. 285).
Dopo i muri e i visi, i primi piani e i campi lunghi, tornano l’acqua, il caldo torrido, i corpi nudi e insonni dell’anno zero.

Lo spostamento del corpo del monaco verso un buco catatonico in cui lo spazio si riorganizza a partire dalla liberazione dal ricordo involontario; la costrizione a un cammino alienante e l’immersione nell’elemento primordiale, preservano la leggerezza come connotato essenziale della ricerca. Il contenimento del mondo attraverso i capovolgimenti degli orizzonti, fasci di neon abbagliante e assorbimenti del buio notturno, lo sospendono come fosse una «bolla che fluttua nell’aria» ma attraversata da velocità differenziali che assecondano la casualità dell’incontro.
Il monaco non è mai solo corpo, solo movimento ridondante a occhi chiusi; è sempre monaco+1.
Che sia seguito, accompagnato, visto o scansato, la sua presenza individuale crea uno scarto tra le solitudini, delimita un campo che neutralizza l’isolamento dei corpi dopo l’astrazione dal «mondo vuoto, inerte» e li riconsegna al sonno «in una zona posta alla fine del cinema» (Abiusi 2013).


Note

1 All’inizio di Tempo e racconto (1983), Paul Ricoeur scrive: «La mia ipotesi di base è che il tempo diventa umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo, il racconto raggiunge la sua piena significazione quando diventa una condizione dell’esistenza temporale».

2 «Il primo piano cinematografico tratta anzitutto il viso come un paesaggio». (Deleuze, Guattari, 2006, p. 267).


Bibliografia

Abiusi L. (2013): Diario 4 (Speciale Venezia 2013)

Deleuze G., Guattari F. (2006): Anno zero viseità, in Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma.

Ricoeur P. (1983): Tempo e racconto, Jaca Book, Milano.





Titolo: Wu Wu Mian (No no sleep)
Anno: 2015
Durata: 34
Origine: China
Colore: C
Genere: SPERIMENTALE
Produzione: YOUKU.COM

Regia: Tsai Ming-Liang

Attori: Masanobu Andô; Lee Kang-sheng     
Sceneggiatura: Tsai Ming-Liang
Fotografia: Pen-jung Liao
Montaggio: Cheng-Ching Lei

Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=THHhAsCdmRY

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