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Abel Ferrara, assieme all’ex detenuto Gaetano Di Vaio, intervista le donne della Casa Circondariale femminile di Pozzuoli a Napoli. Le giovani recluse si confessano, sviscerando ogni particolare: dal retroterra sociale e culturale alle difficili vicende familiari, dai reati commessi (furto, rapina, spaccio di droga) al momento dell’arresto. La maggior parte proviene dai Quartieri Spagnoli, Secondigliano, Scampia, tra le zone più degradate della città, in cui domina la disoccupazione, la vita di strada e la guerra fra i clan della camorra per spartirsi il territorio. Il regista intervista la gente comune, ma anche politici, magistrati e operatori sociali impegnati nella promozione della cultura e nella tutela della legalità. In parallelo, si svolgono due tracce narrative di finzione. Nella prima, si racconta un episodio di vendetta tra gruppi criminali: Carmine viene strangolato da due scagnozzi mentre è sotto l’effetto degli stupefacenti. Nel secondo, un dramma familiare dove si alternano miseria e violenza, che culmina con l’abuso di un padre ai danni di sua figlia.

«L’inchiesta doveva insomma arricchire la nostra conoscenza dei fatti, collaudare l’intuizione che avevamo già avuta: farci respirare quei fatti con lo stesso calore con cui le vere protagoniste li avevano vissuti; raccogliere aneddoti, fissare psicologie, comprendere sentimenti. Chi erano? Da dove venivano? A quali categorie sociali appartenevano? Quali erano i loro gusti nel vestire, che film, quali letture preferivano? Chi erano i loro mariti, i loro fidanzati? Volevamo sapere tutto di tutte loro, convinti che per profondamente comprenderle non potevamo limitarci a domandare solo il loro giudizio sul crollo della scala, le loro emozioni di quel giorno; ma, attraverso la scoperta più ampia della personalità e della loro storia, capire perché erano arrivate a finire proprio là» (De Santis 2004, pp. 12-13).

Da questo spirito analitico e capillarmente investigativo nacque nel 1951 Roma ore 11, impareggiabile capolavoro di inchiesta civile firmato da Elio Petri e, probabilmente, la madre di tutte le moderne docu-fiction. Tralasciato il semplice fatto di cronaca, che pure “andava stretto” al commissionante De Santis (il crollo di una scala in un palazzo di Via Savoia a Roma e il conseguente ferimento di ottanta ragazze presentatesi per un posto da dattilografa), ci interessa invece sottolineare lo stile e, più in generale, l’approccio con cui l’intervistatore si avvicina alla materia.
Anche in Napoli, Napoli, Napoli è presente la stessa volontà di ampliare il raggio di indagine.
Di perforare gli anfratti e le escrescenze di un corpo-città cronicamente in stato di decomposizione (la trivellatrice in azione nel cantiere del boss Ciccio non è solo metafora di un altro sotterramento umano), trascende la pura contingenza e la rappresentazione viziata dai più facili cliché. Come quella del “popolino” (o “Mao Mao” - come lo chiamano in termini dispregiativi), un ceto sociale a sé stante, tacciato da sempre di essere l’unico responsabile di tutti i disagi della città, perché ingestibile e ignorante.

Il proteiforme “fenomeno Napoli” affonda le sue radici nella sezione dedicata alle testimonianze delle detenute, costantemente intervallata dagli altri due segmenti narrativi sviluppati in simultanea. Sono visibili le tracce di un substrato culturale-sociale-antropologico deviato, corrotto e fatalmente incline al crimine: «Se pure non lo vuoi fare, è un mondo che è così…» - dice con rassegnazione una delle donne recluse. C’è chi è finita dentro perché trovata in possesso di 25 grammi di cocaina, chi si è presa due anni di condanna perché ha spintonato una guardia carceraria colpevole di aver picchiato a sangue il fratello, chi, infine, ha subito “un processo alle intenzioni” per avere voluto spacciare una quantità di droga del valore di poco più di mille euro.
Senza adombrare alcuna forma di giudizio ma ponendo semplicemente l’obiettivo ad altezza d’uomo, Ferrara, come in una sorta di coro tragico, fa interagire le voci del sommerso universo penitenziario (anche di quello maschile) con un variegato repertorio di immagini della città.
Comprese quelle delle statue raffiguranti la Vergine col bambino, retaggio di una religiosità devozionale tutta napoletana e, al contempo, di uno sguardo d’autore intriso di spiritualità.
Una città, quella partenopea, in continua tensione («Come il Vesuvio cova la lava, Napoli cova la violenza. Anche quando non esplode» - racconta Roberto Paolo, il caporedattore del quotidiano “Roma”), che scopre la sua insofferenza alla legalità e all’idea di cittadinanza modello nei filmati in bianco e nero del documentario Napoli ’66. Qui, cartine e mappe del piano urbanistico denunciano già la speculazione edilizia e la congestione da cui è afflitta tutta l’area incluso l’hinterland, definito una «cintura di miseria».

Questa «vergogna civile» si riverbera sui nostri giorni sotto le sembianze di uno skyline dalle forme abnormi. La selvaggia espansione urbanistica ha prodotto negli anni megastrutture simili a carceri, edificati senza logiche architettoniche: gli anonimi casermoni di Secondigliano. Sono questi i non-luoghi di cui parla Marc Augé, giustamente richiamati dal Presidente della Municipalità che comprende anche Scampia. Un quartiere giovane, ma costruito solo per abitare. E non per vivere. Uno spazio che non crea né identità singola, né relazione ma costituisce un’esperienza, senza precedenti, di individualità solitaria. Mastodontici agglomerati di cemento, spaventevoli quasi come Moloch, ingabbiano le speranze di chi vorrebbe salvarsi, mentre si ritrova ed essere la cellula invisibile di un organismo metastatico che si autoalimenta involontariamente.
Le coscienze dei ragazzi, offese ed uccise. La negazione dei loro sogni (in queste zone la disoccupazione giovanile supera il 70%). È questa la ferita più grave inferta al ventre della città. Perché - come sostiene la responsabile del centro sociale “Gridas” - «i morti che non si vedono» valgono molto di più dei morti ammazzati dalla camorra che vediamo ogni giorno nei servizi dei telegiornali.

Esiste allora un’altra modalità di racconto della realtà a cui Ferrara approda durante il suo excursus. Accanto alle esibite “macerie” (civili e morali) di un popolo, suggestivamente evocate da alcuni inserti relativi agli anni della Seconda guerra mondiale quando Napoli veniva deturpata dai bombardamenti e gli americani distribuivano viveri alla gente, ci sono anche piccoli ma significativi avamposti di cultura e solidarietà. Come la struttura intitolata a Maradona (DAMM), esempio virtuoso per svolgere attività socialmente utili, che ha sede in una palazzina recuperata al Comune nel quartiere Montesanto.


Bibliografia

De Santis G. (2004): in Roma ore 11 di Elio Petri, Sellerio Editore, Palermo.





Titolo: Napoli, Napoli, Napoli
Anno: 2009
Durata: 102
Origine: ITALIA
Colore: C
Genere: DOCUFICTION
Produzione: MPIER FRANCESCO AIELLO, ASSIMO CORTESI, GIANLUCA CURTI, GAETANO DI VAIO, LUCA LIGUORI PER FIGLI DEL BRONX, MINERVA PRODUCTION & MARKETING, P.F.A. FILMS 

Regia: Abel Ferrara    

Attori: Luca Lionello (Sebastiano); Salvatore Ruocco (Franco); Benedetto Sicca (Carmine); Salvatore Striano (Gennaro); Ernesto Mahieux (Celestino); Shanyn Leigh (Lucia); Peppe Lanzetta (Padre di Lucia); Anita Pallenberg (Madre Di Lucia); Giovanni Capalbo (Tic Tac); Luigi Maria Burruano (Comandante); Fabio Gargano (Ciccio).
Soggetto: Peppe Lanzetta, Maurizio Braucci, Gaetano Di Vaio, Abel Ferrara
Sceneggiatura: Peppe Lanzetta, Maurizio Braucci, Gaetano Di Vaio, Abel Ferrara, Maria Grazia Capaldo
Fotografia: Alessandro Abate
Musiche: Francis Kuipers
Montaggio: Fabio Nunziata
Scenografia: Frank  DeCurtis
Costumi: Daniela Salernitano


 http://www.youtube.com/watch?v=ZVUnAn49xmM

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