Alain Guiraudie, con il suo ultimo film, Miséricorde, tenta di sintetizzare cinematograficamente, asciugandolo il più possibile, quel meraviglioso testo fluviale che è il suo romanzo Rabalaïre (edito da éditions P.O.L) del 2021. Un romanzo che già nel titolo identificava quel protagonista emblematico di tante storie guiraudiane, un “rabalaïre” appunto, che in occitano indica il ramingo, colui che vaga di casa in casa, che rovista nelle cose altrui, che non sta mai in un solo luogo ma è invece naturalmente predisposto all’avventura, anche romantica e sessuale, fuori dai canoni consueti.
Se già il precedente L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice era l’adattamento dei capitoli ambientati a Clermont-Ferrand di quel tomo, adesso questa seconda incursione cinematografica in quelle pagine finisce per costituire un meraviglioso dittico autunnale con il coevo Quand vient l’automne di François Ozon, anch’esso un film di omicidi e funghi. Se il secondo però gioca intelligentemente con cliché risaputi, quella di Guiraudie è un’opera che inventa un suo linguaggio, un suo universo, una sua logica, facendosi racconto di iniziazione metafisica. Ancorato al suolo, alla terra, ai ciottoli, ma allo stesso tempo capace anche di slanci mistici. Esigente e profondamente popolare: non solo il popolo (la sua lingua, i suoi modi di essere, le sue tradizioni) ne sono il soggetto, ma è lo stile, la forma, a essere orgogliosamente popolare.
Ciò che colpisce è l’insieme, il fluire nella sua continuità, la somma di azioni incostanti e indecise, sempre fuori passo, che finiscono per formare questa splendida cattedrale romantica eretta come monumento alla passione inappagata e inappagabile. Ambizioso e modesto, fondamentalmente sessuale e profondamente spirituale, ordinario e soprannaturale, triviale e picaresco, Guiraudie ci guida in un viaggio al termine della notte, nell’incostanza del desiderio, nella clandestinità del crimine e nei misteri dell’amore. Nel paesino di Saint-Martial ci sono pochi personaggi, descritti sempre con estrema precisione, guidati dalla carica erotica che ognuno di loro sprigiona: vedove, gendarmi, contadini, preti, in un vero e proprio comunismo della concupiscenza. La totale assenza di filtri nella versione letteraria, splendidamente céliniana, diventa al cinema - che necessariamente limita, sottrae, ingabbia - una poetica della suggestione, del fuori campo, del non detto. Il giovane protagonista, come spesso lo sono i personaggi di Guiraudie, è un soggetto erogeno, caratterizzato da una totale disponibilità verso l’altro (e quindi anche verso gli spettatori). Ed è camminando, senza avere nulla tra le mani, nulla in tasca, che si definisce, un passo dopo l’altro, strusciandosi sul mondo che attraversa e sulle persone che lo abitano.

Il desiderio cammina con lui e così i suoi sogni (Ce vieux rêve qui bouge era il titolo di un altro capolavoro di Guiraudie del 2001), in un film erotico e sensuale senza sesso, in cui la libido circola senza essere però soddisfatta. Un desiderio che dura senza fine, eterno, che è lo stesso affermato, in un senso ancora più commovente e cosmico, da un altro comprimario indimenticabile, quello del parroco di Jacques Develay, che desidera totalmente senza essere desiderato in cambio. In un certo senso, il dramma del prete è molto simile al dramma dell’omosessuale, e sappiamo che il sacerdozio è stato a lungo un rifugio per gli omosessuali, nelle campagne come altrove. Ma il desiderio insoddisfatto è anche quello dello stesso Guiraudie, apparentemente intrappolato in un “regionalismo” che molti detrattori gli rimproverano, sempre avviluppato negli stessi temi, negli stessi ambienti, nello stesso campo da gioco ben definito (il villaggio, la foresta, il cimitero). Un regista che continua a sognare e a rimandare, come spesso ha dichiarato pubblicamente, il suo grande film d’avventura o di fantascienza, il definitivo ricongiungimento con quel cinema commerciale che ha amato da giovane - il western, il peplum - per tornare invece a girare negli stessi territori di sempre. Dall’altopiano del Larzac, dove è ambientato il suo primo mediometraggio eccezionale, Du soleil pour les gueux (2001), alle gole della Dourbie, nei pressi delle quali si svolge Miséricorde. Poco più avanti, nella Lozère, troveremmo gli altipiani sassosi e scrostati di Rester vertical, che non a caso si apriva con una sequenza molto simile a quella che introduce questo suo ultimo film: un viaggio in macchina che subito ci rende familiare la geografia della narrazione, gravida anch’essa di avvenimenti grandiosi destinati a essere raccontati altrove.
Un paesaggio arido, vasto, che è stato anche teatro di una storia ricca di eventi cruciali e che in qualche modo rappresenta un’eredità politica. È lì che molti giovani intellettuali degli anni ’60 e ’70 hanno scelto di stabilirsi per dare concretezza ai loro ideali di decrescita (ritorno alla terra, stile di vita neorurale). E fu proprio su quelle terre che si svolsero violente lotte, dal 1971 al 1981, per opporsi al progetto di ampliamento di un campo militare. Andando ancora più indietro, quelle stesse montagne trassero in inganno i soldati di Luigi XIV, giunti lì negli anni della persecuzione contro i Camisardi, che si convinsero, vedendole da lontano, di essere arrivati a Montpellier. Ricordi di lotte e di conflitti che si sovrappongono nei secoli. Una dimensione epica che, come tante altre cose nel cinema di Guiraudie, rimane fuori dall’inquadratura. Il microcosmo rurale inoltre suggerisce una trans-nazionalità che rifiuta la riconoscibilità visiva della propria nazione di provenienza, insistendo su paesaggi che potrebbero appartenere ugualmente all’America Latina, al Perù o al Cile. D’altronde Guiraudie, quando ha iniziato a fare film, ha subito messo in chiaro la volontà di distinguersi dal giovane cinema d’autore degli anni ’90, necessariamente parigino e ambientato tra le quattro mura di un appartamento. E ancora oggi, con Miséricorde, sembra prendere bonariamente in giro un buon numero di scene archetipiche del cinema francese: cene, interrogatori e via discorrendo.
Il cinema di Guiraudie trascende, attraverso la brillantezza e la precisione del suo stile, attraverso l’irresistibile respiro comico, la sua lampante assenza di moralità. Il desiderio, qui, è onnipresente, striscia, galoppa. Tra vecchi e giovani, tra magri e grassi, tra donne e uomini, tra religiosi e atei. Questo desiderio finisce sempre per essere espresso, anche quando asimmetrico, addirittura frustrato, e si rivela miracolosamente come un’opportunità, addirittura come una forma di grazia, di “misericordia” appunto. Se infatti Miséricorde può essere letto come una variazione sul Teorema di Pier Paolo Pasolini, in cui un intruso seduce e conduce i membri di una comunità ristretta (la famiglia come un villaggio dell’Occitania) alla sua distruzione, va riconosciuto che quello di Guiraudie è senz’altro un film più gioioso del suo illustre modello. Inclusivo e accogliente, mette insieme età disparate, mette in risalto delle fisicità atipiche, affianca attori sconosciuti a vecchie dive del grande schermo, per un viaggio galvanizzante nel desiderio. Desiderio “inconsumabile”, proprio come lo era la poesia per Pasolini.