È partita dal teatro, dai teatri di guerra e dunque dal suo Teatro di guerra (1998), la masterclass di Mario Martone al Cine Parco Tilt a Marconia di Pisticci nell’ambito della 23esima edizione del Lucania Film Festival, diretta da Rocco Calandriello.

La lunga conversazione, condotta e coordinata dal direttore Luigi Abiusi, ha preso avvio proprio dalle esperienze teatrali di Martone, che come è noto ha iniziato giovanissimo, nella seconda metà degli anni ’70, proprio con il teatro d’avanguardia. «È stato un periodo molto vivo – ha ricordato. Di quegli anni prevale una lettura plumbea, ma in realtà alla fine del decennio precedente, con il ’68, si erano aperte una serie di porte che hanno lasciato filtrare energie straordinarie nel rapporto tra politica, società, arte e cultura». Un clima che secondo il regista napoletano incoraggiava l’incrocio di linguaggi diversi, lo scambio, la partecipazione, come avveniva ad esempio nel mondo del teatro campano dell’epoca, di cui Martone e Servillo erano tra i principali protagonisti tra Napoli e Caserta. «Il teatro era fatto di performance, di azione, non soltanto di parola. ’Fare con quello che c’è’ era il mantra del tempo, che si trattasse di cinema, teatro o qualunque forma espressiva. Se si ha questa consapevolezza e la voglia di confrontarsi con gli altri allora si può generare qualcosa».

Passando poi a Teatro di Guerra, girato a vent’anni dai primi passi dietro le quinte e con in mezzo l’esperienza fondamentale di Teatri Uniti, nata nel 1987, Martone ha rievocato la temperie in cui il film era immerso: le guerre jugoslave, l’assedio di Sarajevo («Una città che era ormai una cartolina, come la definiva un mio amico scrittore bosniaco»), la difficoltà di schierarsi dinanzi a quella che non esita a definire «la prima guerra postmoderna, la prima ad essere filmata e messa in onda con tanta copertura». Un’occasione per parlare anche di come nascono i suoi film. «Con un’illuminazione! Per Teatro di guerra, ad esempio, è stato il Festival di Avignone, dove le compagnie, soprattutto quelle francesi, non facevano che parlare della guerra. Ma è stato così per tutte le mie opere, c’è sempre stato un momento in cui si è accesa una luce e ho visto la forma del film. Poi dopo inizia un lungo lavoro in cui si visitano luoghi, si parla con la gente e il film si modifica: è un work in progress. Solo alla fine ritrovi l’immagine iniziale. O almeno io l’ho sempre ritrovata».

Incalzato da Abiusi sulla grande libertà stilistica e creativa che trasudano le opere martoniane, il cineasta partenopeo ha spiegato come in realtà questa sensazione di libertà non sia altro che il risultato di una preparazione meticolosa, che parte dalla fase di scrittura. «Non ho mai creduto al fatto che la sceneggiatura sia meno importante delle immagini. Non mi interessa la sceneggiatura come schema, però. La vedo alla stregua di una mappa: più è dettagliata e più puoi muoverti in modo libero perché vedi bene ogni strada, ogni passaggio. Più ti prepari prima del viaggio e più sei libero durante. É come scoccare una freccia. La freccia si può scagliare anche ad occhi chiusi perché l'arciere si è sottoposto ad una preparazione incredibile, con una dedizione e una disciplina interiore ferrea. E lo stesso vale naturalmente anche per gli attori. Ad esempio Elio Germano per Il Giovane favoloso non si preparò soltanto sulla sceneggiatura, ma studiò Leopardi. La sceneggiatura era fatta di intarsi, di frasi prese dalle opere di Leopardi. Quando Germano arrivò sul set sapeva ricondurre ogni frase del copione all’opera leopardiana da cui proveniva. Questo ci ha consentito di improvvisare, perché la mappa era già tracciata».

E poi ancora sul rapporto tra immagini e musica nei suoi film. «Quando giro non so ancora quali musiche inserirò – ha spiegato. È una cosa che scopro al montaggio. Penso che la musica non debba essere una stampella del visivo: l'immagine deve funzionare da sola. Mi interessa girare senza la musica in testa, mi interessa la musica come strumento dialettico. In Capri Revolution, che è l’unico caso di musica originale in un mio film, dato che di solito utilizzo musica di repertorio, ho scelto Rossini e gli Apparat perché volevo porli in contrapposizione dialettica. In Qui Rido Io c’è ovviamente la canzone napoletana mentre l'idea dei brani sinfonici mi è venuta ascoltando l'Otello di Verdi, astraendo la voce e sentendo la parte orchestrale». E per i Tangerine Dream di Nostalgia? «Sono partito da Bach, da un’ispirazione pasoliniana. Questa dimensione spirituale mi ha portato all'organo, poi all'Hammond, ai gruppi degli anni Settanta, alla scena elettronica tedesca, ai Tangerine Dream. Sono approdato a qualcosa di molto lontano dal Mediterraneo, che il centro del film. Ma credo che la scelta funzioni proprio per questo».

Per quanto riguarda la relazione tra il suo cinema e la letteratura, invece, evidente nella matrice letteraria di molti suoi film, Martone ha ricondotto il discorso all’ispirazione, alla luce che si accende. «Mentre leggevo questi libri riuscivo a vedere già le immagini. Ma anche qui mi sono sempre mosso in libertà, trattando i testi come dispositivi con cui dare vita al film senza pensare alla fedeltà della trasposizione. Noi credevamo, ad esempio, porta con sé più libri, è molto diverso dal testo omonimo di Anna Banti.

Spazio anche a considerazioni sull’emancipazione femminile nella filmografia martoniana. «Ho sempre cercato di raccontare donne che non fossero ‘mogli di, fidanzate di, figlie di’. Mi piace l'idea di avere figure autonomi, equivalenti rispetto ai personaggi maschili. Lucia di Capri Revolution, ad esempio, supera tutti: è destinata a ribellarsi al patriarcato, diventa espressione di quella stessa utopia che è possibile rintracciare nelle idee della comune e nel socialismo del medico».

Perché la cultura e dunque il cinema possono cambiare la vita e Martone ne è pienamente convinto. «L'opera scava nella coscienza, non cambia il mondo, come diceva Patrizia Cavalli delle sue poesie, ma qualche colpo riesce a darlo. Anche qui è questione di scambio, di partecipazione. L'opera si dà soltanto nel rapporto che si crea tra l'artista e il fruitore, e vale per ogni forma d'arte, dalla pittura al cinema alla letteratura al teatro. Per questo sia l’autore che il pubblico hanno un’enorme responsabilità».