Durante una piovosa sera d'estate, Bibiane, giovane donna di 25 anni, con la sua auto investe un passante che attraversa la strada. Spaventata, fugge. L'uomo va a casa e si spegne serenamente nella sua cucina. Ma la vita di Bibiane non impiega molto tempo a trasformarsi in caos quando incontra Evian, un uomo bello e molto loquace, che non è altri che il figlio dell'uomo che è stato investito.
[dalla sinossi ufficiale del film]
«“The island in the distance,” resumed the old man, “is called by the Norwegians Vurrgh. The one midway is Moskoe. That a mile to the northward is Ambaaren. Yonder are Islesen, Hotholm, Keildhelm, Suarven, and Buckholm. Farther off - between Moskoe and Vurrgh - are Otterholm, Flimen, Sandflesen, and Stockholm. These are the true names of the places - but why it has been thought necessary to name them at all, is more than either you or I can understand”»
(E. A. Poe, 2010)
Dare un nome alle cose è carpirne l’intima natura. È strapparle all’oblio, immettendole nel mondo dell’uomo e quindi del linguaggio. È possederle, e quindi, come asserivano i tibetani, esserne posseduti. Così Adamo dà un nome a tutte le cose per poterle dominare, così il tribuno Valerio Sorano viene messo a morte per aver rivelato il nome segreto di Roma. E così i norvegesi delle isole Lofoten nominalizzano dodici nude rocce che stanno sopra il pelo dell’acqua per limitare e confinare il Maelström. Agiscono sul nome, sul simbolo, sul linguaggio, per trarre in salvo la razionalità e la realtà. Ed è importante che a descriverci tutto ciò sia colui che ha messo assieme mente e orrore, inconscio e logica, quell’Edgar Allan Poe che ne I delitti della Rue Morgue fonda la deduzione e ne Le avventure di Gordon Pym si fonde con il grido finale «Tekeli-li».
Eppure così agisce anche Denis Villeneuve, non una ma ben tre volte. Maelström (2000), Polytechnique (2009), Incendies (La donna che canta, 2010) non sono solo titoli di film, ma simboli, grumi di significato e significante che in un regressus ad infinitum girano e tornano e insistono su loro stessi fino a divenire parte della narrazione che rappresentano, fino a divenirne soggetti protagonisti. I gorghi, il luogo, le fiamme dei tre titoli del regista canadese sono lo spazio e l’oggetto/soggetto della rappresentazione, dei doppelgänger che in una sorta di rifrazione dei molti mondi di Hugh Everett III arrivano ad innalzare una propria consapevolezza, a discorsivizzarsi, a sciogliersi non in un simbolo ma in una foresta di simboli. E in una foresta puoi orientarti grazie al muschio sugli alberi, puoi salire su uno di essi e osservare l’orizzonte e il nord: così si forma una traccia, una rete, e come in un labirinto di primo grado puoi raggiungere il centro tenendo sempre la sinistra, nella filmografia di Villeneuve sai che un simbolo non porta agli universali ma alla narrazione, alla realtà.
E sai che Villeneuve ci si immerge fino alla testa e alla cinepresa, approntando un regime visivo totalitario attorno al nucleo/simbolo/titolo del film, filmando in rosso e marrone per Incendies, in bianco e nero per Polytechnique, e in blu – come il mare, come gli occhi della protagonista, come The Ocean Doesn't Want Me di Tom Waits – per questo Maelström; che ogni personaggio arriva quasi ad essere una funzione morfologica proppiana, una dramatis personae da canone bloomiano, come ratificato anche dagli importanti titoli di coda di ogni suo film, e che qui incasellano senza soluzione di continuità Voix de l’Entité, Poissonnier Infernal, Employé de la poissonnerie 1/2/3, L’inconnu du métro, L’ami à la mauvaise nouvelle; che il suo lavoro sulla struttura e sovra-struttura arriva ad esplorare e a far esplodere i pilastri della sua terra-visione, come ci ricorda Matteo Marelli scrivendo di Polytechnique e della Seconda Legge della Termodinamica e della picassiana Guernica.
Ma il canadese va oltre, e nella storia di Bibiane Champagne, del suo recente aborto, del suo licenziamento come presidente dell’azienda di moda, del suo incidente che porta alla morte di un lavoratore norvegese e da cui è scappata omettendo il soccorso, del suo incontro con il figlio e il loro innamorarsi, c’è uno iato, uno spazio negativo che non si ribalta. Qui i simboli sono presenti, forti, continui – la Madre, la Macchina Che Odora di Pesce, il Rito del Pesce e dell’Alcol –, e quando il pesce che sta per essere sezionato in un antro infernale da un essere gigantesco e lurido e grugnante inizia a raccontarci la vicenda di «a young woman starts on a long voyage toward reality», capiamo che non è la storia di Bibiane Champagne quella che vediamo, ma la storia di Bibiane Champagne narrata da quel pesce, da quel simbolo: i simboli parlano, rimandano alla loro storia, alla loro intima storia e non ad altro. E il pesce infernale racconta di quello che succede, delle svolte della vita, dei significati della vita e di come è stato catturato, della sua sofferenza, dei suoi ultimi respiri…
«Vi ber om unnskyldning til alle vare norske venner. Filmen viser et bilde av Norge som er basert pa klisjeer. Vo skrev filmmanuset under hypnose. Vi beklager at alt i filmen er oppspinn».
Tutto è sovraesposto, tutto è nella testa. Villeneuve inizia e finisce lì. Scrive sotto ipnosi e arriva a far concludere la vicenda al largo delle isole Lofoten, dove storicamente, sì, storicamente, è nato ed è il Maelström. Nel mezzo effettua un detour fisico e mentale che fa avanti e indietro dalla spuma simbolica che è sostanza, al massimo realismo visivo ed effettuale. Bibiane fuma, beve, scopa, è sporca, ubriaca, agisce in modo stupido e contraddittorio. La diade chimerica spezza la sua vita tra il licenziamento e l’amore tragico per il figlio di colui che ha ucciso – squarcio sui futuri eschilei eventi di Incendies –, tra i viaggi di lavoro e l’essere la figlia di una star della moda. Le direzioni sono multiple, i registri pure, con un’ironia a volte grottesca a volte triste che sale dagli eventi, con “L’inconnu du métro” che continua a chiedere «Who knows about it?» e i partecipanti al Rito del Pesce e dell’Alcol che intonano maledizioni di morte sempre più ridicole e irrealizzabili. Il rovesciamento è continuo, e a ben vedere e ascoltare è lo stesso che accompagna il traditional che più volte appare nel film, che sì canta «rip their heads off, empty their skulls, drink from the skulls of our enemies», ma è dolce e lento e bello. Per direzionare e incanalare questo maelström (con la minuscola) Villeneuve innalza i suoi fianchi di babordo e tribordo, spezzando e fermando la narrazione con degli inserti dal più puro Brecht, cartelli che segmentano gli improvvisi sprazzi di luce nordica. Scritte e indicazioni non chiarificatori, non nel senso di una razionalità da ossequiare, ma neutri, giusti, assoluti in rapporto al racconto – quindi più verso il Camus de Lo straniero. E quando tutto questo diviene scena, sequenza, abbiamo degli “eventi” visivi fuori dal razionale ma dentro la logica, come il polpo servito a pranzo a Bibiane e all’amica Claire, come il flashback (o flashforward?) sul suicidio (tentato?) di Jean-François in Polytechnique, come il mescolamento di date ed eventi nel finale di Incendies.
Tutto, ancora, è nella testa. Una testa rovesciata, perché come firma lo stesso Villeneuve nel cartello di apertura del film riportato poco sopra, «vo skrev filmmanuset under hypnose». Un’ipnosi che vela i rimandi allo stesso regista, che porta il first name del maggiore filmaker della sua terra, Denys Arcand, e il last name del maggiore pilota della sua terra, Villeneuve. Ma tanto, e Poe ci aiuta un’ultima volta, «is more than either you or I can understand».
Bibliografia
Poe E. A. (2010): Una discesa nel Maelström, in Racconti del terrore, Mondadori, Milano
Titolo: Maelström
Anno: 2000
Durata: '87
Origine: Canada
Colore: C
Genere: Drammatico
Produzione: Max Films Productions, Société de Développement des Entreprises Culturelles (SODEC), Téléfilm Canada
Regia: Denis Villeneuve
Attori: Marie-Josée Croze (Bibiane Champagne), Jean-Nicolas Verreault (Evian), Stephanie Morgenstern (Claire Gunderson), Bobby Beshro (Philippe Champagne), Marc Gélinas (L’inconnu du métro)
Sceneggiatura: Denis Villeneuve
Fotografia: André Turpin
Montaggio: Richard Comeau
Scenografia: Sylvain Gingras
Costumi: Denis Sperdouklis
Musiche: Pierre Desrochers
Riconoscimenti
Reperibilità
http://www.youtube.com/watch?v=Qm6XSDhj8mk