liverpoolLisandro Alonso con
La libertad (2001), Los muertos (2004), Fantasma (2006) e Liverpool (2008) rivoluziona, in appena sette anni, il linguaggio cinematografico argentino, rompendo con la tradizione e accordandosi alla visione del nuovo corso già intrapresa da Pablo Trapero, Lucretia Martel, Martin Rejtman, Celina Murga ecc.

 

 
Si spengono le luci in sala e ci si ritrova davanti a un film già finito. Parrebbe rovesciato nell’inatteso e rosso clamore dello scorrere dei titoli di testa molto simili a dei titoli di coda dentro quella sospetta veemenza che sembra trascinare via il peso del corpo filmico (e quel che ne rimane forse è un riflesso, un’ombra, un fantasma); tant’è che lo si vedrebbe curiosamente ri-montato all’inverso senza che per questo ne venga minato quel senso già fuggevole di fuga o di ritorno. 

Da principio è insostenibile: nauseante si spande l’afrore gommaceo delle centraline, delle tastiere e dei monitor surriscaldati dalle operazioni di monitoraggio, e s’indovina l’umido dei giorni stantii sulla tuta di Farrel, lisa dal grasso, dalla ripetitività del gesto. Il rombo sordo e continuo delle macchine e delle pompe ci lascia intuire la grandezza della nave, dato che la camera si muove in un campo angusto e labirintico fatto di corridoi, porte e cabine. È un pregevole lavoro sinestetico quello che, soprattutto nella prima parte del film, ci dà la possibilità di sentire gli odori, vedere gli spazi, e talvolta le azioni dei personaggi, per mano del sonoro e di una macchina da presa che predilige l’adagiarsi su inquadrature statiche e tendenzialmente lunghe.

Introdotto in penombra, sul fondo di una stanza, in cui in rilievo due compagni si svagano davanti a un videogioco, Farrel si rivela, e al tempo stesso si sottrae. Disancorato da se stesso viene a mancare, nella straordinaria sequenza dalla forte connotazione pittorica, dove  la macchina da presa ferma, in campo lungo, scorta i suoi ultimi passi prima che si confonda nell’intricata cortina di alberi all’orizzonte.

È subito chiaro l’intento del regista: lo sguardo scivola verso i margini dell’immagine e si apre a ciò che è fuori campo, a ciò che non può essere trattenuto, all’invisibile. L’immagine del corpo si sgretola e sedimenta nel corpo dell’immagine. Il fondo, fumido e marcescente negli interni, scheletrico e informe negli esterni, avanza sospinto dalle sue cromature talora scialbe, talora luminescenti, fagocitando ciò che appare come sostanza del mondo davanti alla macchina da presa.

Spossessato dalle redini del filmare, Alonso annuncia il suo scomparire nel tremito del piano sequenza girato sul pianale di un autocarro, dove i movimenti, per lo più impercettibili, sembrano essere dettati dagli scossoni delle ruote sulla strada gelata e dal vento che sferza contro i tronchi adagiati sul rimorchio. Frutto di uno sguardo aleatorio, di un glorioso confondersi del perimetro dell’esistenza, rasenta il metafisico, dimenticando l’umano stare al mondo, il camminare nel nulla. È un cedere catartico, fulmineo: l’occhio si inaridisce presto, e costretto a chiudersi, si riapre su una comunità caduta dal tempo, abitante di un villaggio assopitosi sotto la coltre lanosa dell’inverno.                                                                                                                            
Qui impera il silenzio: la parola è rara e vuota, e la memoria sfuma nei fumi delle stufe, nelle slavature del cielo, nel freddo della neve (la madre ammalata non riconosce il figlio, mentre quella che molto probabilmente è la figlia di Farrel non riconosce suo padre se non all’interno delle pareti domestiche). Scarti di un riverbero tenue e disincantato, di un crepitio che simula lo scorrere nella fissità, essi ricordano i personaggi bressoniani.                                                                                                                              
È possibile intercettare una figura eroica in questo scorante dimenarsi di fantasmi? L’eroe lo si scorge in Analia, forse riesumazione della Marie di Au hasard Balthazar. Piegata all’insignificanza del quotidiano, alla parola come comando, ingaggia, da ultimo baluardo, un’inconsapevole lotta silenziosa per la vita, brancolando romita e sonnambula, sognando un’improbabile e nuova luce.





Titolo: Liverpool
Anno: 2008
Durata: 84
Origine: Argentina, Olanda, Francia, Germania
Colore: C
Genere: Drammatico
Produzione: 4L, EDDIE SAETA S.A., SLOT MACHINE

Regia: Lisandro Alonso

Attori: Juan Fernandez (Farrel), Giselle Irrazabal (Analia), Nieves Cabrera (Trujillo).
Sceneggiatura: Lisandro Alonso, Salvador Roselli
Fotografia: Lucio Bonelli
Musiche: Flor Maleva
Montaggio: Lisandro Alonso, Fernando Epstein, Martin Mainoli, Sergi Dies
Scenografia: Gonzalo Delgado

Riconoscimenti

Reperibilità 

http://www.youtube.com/watch?v=E0QdEDtwQXk

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