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E vi è un punto fosforoso dove si trova tutta la realtà,
ma cambiata. Un punto d’utilizzazione magica delle cose.
(Antonin Artaud)

 

 

 


«La tempesta mi ha reso sordo, gemeva come un animale ferito». Così i perduti avanzano in una cavità che strappa e addormenta il cuore. E volge in uno spazio demolito, senza profondità, in una superficie che annienta e scioglie nel lattescente ogni sforzo. A scorgersi abbracciati, legati al nulla infinito che svuota il sé come un ascesso, come umore stanco, distesi tra le orme dei morti con un piede nel marcio e l’altro sul cuore.

C’è un tempo delle membra in cui la natura ostruisce e splende, e di malesseri e nudità irrora le arterie. Così nei luoghi di un ascetismo obbligato, travolti dal «sovvertimento lacerante del dio che muore» (Bataille 1978) la bile nera non è che il sentire chino degli inverni a venire che chiodano al suolo le fronti e le magre figure curvano a sbiadire. E la perdita, l’afflizione virginale, il caseggiare tristo, l’addormentare gelido di tormente elettriche e bordate e diluvi, e perlacei istanti.

Questa morte viene avanti al fianco, passeggia coronata di greggi e piega la genie in un sogno, e fiacca infetta di tempeste lo spirito: ciò che la natura non può ottenere dalla ragione, lo ottiene dalla follia. Poi nella Lozère tra cieli di metallo si fissa molle l’invisibile danno. E Vandeweerd osserva e vive l’oblio dei dispersi sugli altipiani dove le greggi sciamano morbide e gli ospedali soccorrono melanconie da inverno. Fernel scorse nell’immaginario novembrino quella sindrome melanconica che assale come lebbra gli spiriti, e di torpore e d’insufficienza devasta i sensi, ornati da «funebri addobbi di lutto», sconfitti in un moto deforme «che nessun possesso può pareggiare e nessuna perdita insidiare» (Agamben 1977, p. 26). Tutti si slacciano in un assorbimento circolare, in un essere-corpo vuoto, sciolti in una partecipazione invisibile, disgiunti eppure uniti, lambiti dalla perdita primitiva, da sudori ancestrali e latitudini astratte a sprofondare vinti nell’infinita costellazione dei dimenticati. L’«umore nero e freddo diviene la colorazione essenziale del delirio» (Foucault 1973) e la vertigine è un io sottile, un «abisso completo capace di un dolore totale» (Artaud 2001), un movimento nero costernante che, analogamente in Pelechian (Les Saisons 1972), si inchioda sulla tribalità liturgica del pastorale e apre su spazi costretti da sonorità mantriche in convulsione, e densi e folgoranti a rivelare la terra di un io che muore e consuma nella patogenesi del freddo. «Immaginati un uomo che fin dalla sua nascita sia sempre vissuto in uno spazio in cui la luce entra soltanto filtrata da vetri rossi. Forse costui non sarà in grado di pensare esista una luce diversa dalla sua. Considera il rosso una qualità essenziale della luce. Anzi, in un certo senso si accorgerà solo del color rosso della luce che lo circonda» (Wittgenstein 2004).


Bibliografia:

Artaud A. (2001): Nel paese dei Tarahumara, Adelphi Edizioni, Milano.

Agamben G. (1977): Stanze. La parola e il fantasma della cultura occidentale, Einaudi, Torino.

Bataille G. (1978): L’esperienza interiore, Edizioni Dedalo, Bari.

Foucault M. (1973): Storia della follia in età classica, Rizzoli, Milano.

Wittgenstein L. (2004): Licht und schatten, Ein nächtliches (Traum-)Erlebnis und ein Brief-Fragment, Innsbruck: Haymon.

 




Titolo
: Les tourmentes
Anno: 2014
Durata: 77'
Origine: Francia, Belgio
Colore: C
Produzione: Cobra Films, Zeugma Films

Regia: Pierre-Yves Vandeweerd

Fotografia: Pierre-Yves Vandeweerd
Montaggio: Philippe Boucq
Suono: Jean-Luc Fichefet
Musiche: Richard Skelton 


http://www.youtube.com/watch?v=lZ1p9rrg7so

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