altSembra quasi che - nel cinema di Philippe Cote - l’occhio vaghi dentro uno spazio che ha fatto del tempo la propria estensione, un tempo che fa da sfondo al fondo dell’immagine: un movimento accelerato che diventa curvatura, torsione brulicante nella grana della superficie materica, dell’immagine che affiora dal proprio supporto, la pellicola.


Qui ciò che si rivela è il residuo di quello che il mezzo è in grado di catturare,  continuamente in bilico, nel limbo della macchina da presa, nell’atto stesso del guardare. La profondità va nascosta in superficie dice Hoffmannsthal e così in Philippe Cote è la superficie della pellicola, nei suoi singoli e interni grani cellulari, a sfrigolare nella luce che l’attraversa; è un moto che prende forza dalla stasi apparente del cielo, dal nero abissale o da quel bianco rancido di certe sue improvvise esplosioni che crea l’emersione - come afferma lo stesso Cote - di ”immagini liquefatte”. Sembra che la luce si faccia qui strappare a morsi dalla pellicola, squarci improvvisi e ciechi, pascoli di cielo, il mondo intero che bruca la materia viva dell’immagine.

Da questa prospettiva che è quella di un certo cinema contemplativo e sperimentale che fa della pellicola ancora una volta un atto di sopravvivenza, L’angle du monde rappresenta la sua estremità, il margine che si ripercuote, s’inquieta cioè tra le pieghe della visione e quelle pieghe diventano angoli di cielo, di mare, di un paesaggio che diventa liquido, arioso, viaggio ai confini del mondo, territorio onirico che rievoca certi paesaggi di confine  catturati da un altro cineasta esploratore - Peter Hutton - che con il suo il suo Landscape (for Manon) e Three Landscapes ad esempio «libera cielo e terra dal loro destino di semplici presenze» (D'Angela) . Per entrambi il cinema diventa spazio vuoto, molesto e che impone di essere attraversato, luogo intimo, poetico, territorio silenzioso che deposita tracce perché la pellicola è quella trama che si lascia assottigliare dalla forza erosiva della luce e fa sì che l’immagine possa venire al mondo: è attraverso certi spiragli che si scorgono abissi.

Cosa si vede? Una realtà continuamente trasfigurata: masse di cielo spaccato, rive impercettibili, schiume di mare e un faro all’orizzonte che rilascia lampi di luce: sono segnali che indicano traiettorie e il film diventa documento, testimonia che il cinema è ancora in grado di spezzare memorie e rievocarle poi per mezzo di uno sguardo puro, quello stesso di cui ci parla Pialat in L’amour existe e che ci impone di vedere le cose da un'altra prospettiva esigendo dall’occhio il viaggio e dal mezzo un altro “cambio di angolazione”. Si deve essere capaci cioè di produrre «un’emozione intensa dovuta alla semplice visione di una cosa sensibilmente percepita» (Mitry 2002, p.79).


Bibliografia

D'Angela T. (2014): Three Landscapes o l'autopsia del paesaggio, «La furia umana»

Mitry J. (2002): Storia del cinema sperimentale, CLUEB, Bologna





Titolo: L'angle du monde
Anno: 2006
Durata: 32'
Origine: France
Colore:C B/N
Genere: DOCUMENTARIO/SPERIMENTALE

Regia: Philippe Cote




 










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