alt

La grande illusione

 

Per chi decide di percorrere il Sunset Boulevard in tutta la sua lunghezza, da Downtown fino all’Oceano, all’apparenza di un andare morbidamente oscillatorio – un mondo parallelo dove si susseguono a perdifiato quartieri opposti e cangianti, grandi come città che sembrano appartenere a universi agli antipodi – dovrà lentamente rivedere la prima impressione e fare i conti, al contrario, con l’incanto inerte di una memoria troppo solida per essere vera. Qui piuttosto comincia la discesa nel vuoto, qui si dipana una malinconia lontana, con nel fondo un tramonto bruciante, di altrettanto intatta avvilente bellezza.


Qualcuno di recente li ha definiti canyons (Easton Ellis/Schrader), qualcun altro, pochi anni fa, ci ha scritto un libro in cui si vede proprio il vizio di questa forma, e alla fine, senza più appigli, c’è un tuffo collettivo nella nebbia (Inherent Vice di Thomas Pynchon, la cui riduzione cinematografica di Paul Thomas Anderson, non potendo aggiungere né una parola né un’immagine, ha per lo meno il buon gusto di lasciar perdere l’incredibile romanzo-cinema e di chiedere aiuto all’Altman più conscio di questo eterno crepuscolo, quello di The Long Goodbye, limitandosi così, più umilmente, a fare un film). Curiosamente, l’anno fatidico 1968, dove appunto si ambienta Inherent Vice, vede sul Sunset l’inedita presenza di Jacques Demy, che sceglie proprio questa striscia di triste bellissima luce per girare il capolavoro Model Shop, e canyons dopo canyons quello che sarebbe dovuto essere il seguito di Lola, ne diventa il doppio luttuoso, amorosamente sfinito dai suoi stessi fantasmi. Si potrebbe continuare, ma è sufficiente per dare un’idea di quanto da queste parti, come al cinema, c’è troppa vita per credere di essere vivi (vedi per esempio anche la Los Angeles insanguinata di James Ellroy).

Terrence Malick con Knight of Cups racconta senza mezzi termini null’altro che questo paradosso, il vitalissimo grande nulla d’ogni paradosso. La storia di un vuoto abissale, che, invece d’esser liquido, viene continuamente liquidato dall’arabesco fittissimo di sussurri potenti e pregati, grida di dolore il cui impatto devastante si genera da un mosaico di voci off smarrite in eco lontane, disseminate, singhiozzate, claudicanti. Se di un’unica grande preghiera si tratta, è una preghiera selvaggia e disperata, che usa il cubico sorvolo aereo delle immagini (pensate evidentemente come forma moebiusiana che letteralmente verticalizza l’orizzonte, ripetendo il groviglio spettacolare della rete stradale losangelina, dove tutto è al tempo stesso sopraelevato e perpendicolare), per mostrarne l’illusione, l’inesorabile ritorno al nulla da cui sperano un giorno di sollevarci.

E così si aspetta il terremoto finale, la spaccatura unica che infine un giorno riunirà le innumerevoli ferite che già segnano la faglia. Nel frattempo, chi sperava in una narrazione, se non lineare, almeno avvolgente, si abituerà, anzi riconoscerà se stesso nell’abitudine al frammento, o al racconto fatto di colpi d’occhio su cose già viste e già raccontate milioni di volte e milioni di immagini fa. Si chiama memoria al lavoro, risalita dal basso di punti-luce, rivoluzione ininterrotta degli affetti. Amore e assenza d’amore, scopate fugaci e scopate infinite, spiagge splendenti e spiagge drammatiche e vuote, dedizione e tradimento, nascita e morte, l’agonia di misteriosi ripetitivi conflitti edipici e il sussulto vitale della strada perduta (nel finale siamo di nuovo on the road).

Ci sarebbe piuttosto da chiedersi che cos’è per Malick il cinema, visto inoltre che tutto questo gigantesco smottamento, questo pauroso perpetuo tremore, potrebbe essere sussunto in una parola, o in un’inquadratura di un secondo, ma entrambe capaci di contenere l’intero universo, benché a loro volta non sono altro che la costola e forse il rimontaggio del film precedente, o il film che nasce da un’inquadratura eliminata del film prima (per questo da tempo avviciniamo Malick a chi filma la scomparsa del cinema, riannodandone i fili sui nervi scoperti del proprio stesso corpo filmico: Paulo Rocha, Ruiz, Godard, Bressane, de Oliveira, Straub, con l’aggiunta recente di Andrea Tonacci e Ivan Cardoso). Malick però fa anche un passo in più, o uno sconvolgente piccolo scarto laterale di cui prima o poi si dovrà discutere. Ammesso che il cinema esista ancora, Malick fa film nel punto in cui, prima ancora che scomparso, si è addirittura auto-sublimato. Non è che sia indifferente al racconto o alla giustapposizione dei racconti, ma al contrario si interroga sull’esistenza di un montaggio in grado di restituirne la naturale ubiquità e fragilità, la potenza di un attimo e la vertiginosa inconsistenza del tutto, qualcosa che scavalchi l’inesorabile fugacità d’ogni vita e scelta e pensiero finanche, per mostrare almeno lo spazio in cui, anche se come ultima illusione, la storia dei rapporti umani, tutti al contempo importantissimi e assolutamente insulsi e nulli, avviene e si disperde (Straub mi perdoni, ma non siamo lontani dalla sua concezione dello spazio come unica conquista possibile dell’immagine e nell’immagine, nonché unico e diroccato ponte che dovrebbe condurre i pochi veri cineasti al mistero inconsolabile del cinema).

E se volesse solo filmare l’aria? Meglio non scambiare tutto questo per la solita deriva arty, condita di qualche stampellina di grande arte astratta (o peggio sperimentale!). No, Malick usa questa base riconoscibile di belle immagini, costumi splendenti, attori famosi e il loro innesto ironico in un’architettura abissale (beh, però Natalie Portman che dice a Christian Bale «leccami il piede…»), come falsi movimenti, menzogne da cui guardarsi e dipartire, specchietti per le allodole, mentre invece gli specchi veri sono tutti in funzione e teatro di un tuffo collettivo da parte del turbinio di immagini, che si avverano per qualche secondo e poi subito scompaiono nell’altra sconosciuta dimensione. Quel che resta è un respiro, il respiro affannoso d’ogni singola cosa e di nulla, che affoga e risale senza sosta, convulso e stanco come un polmone millenario. D’altra parte a Los Angeles ci sono delle volte che se ti siedi a fine giornata e guardi non importa dove, a prender l’ultima luce, lo sai bene che sei già un fantasma.


Questo contributo compare anche su Filmcritica 653


Filmografia:

Inherent Vice (Paul Thomas Anderson 2014)
Knight of Cups (Terrence Malick 2015)
Lola (Jacques Demy 1961)
Model Shop (Jacques Demy 1969)
The Canyons (Paul Schrader 2013)
The Long Goodbye (Robert Altman 1973)




Titolo: Knight of Cups
Anno: 2015
Durata: 118'
Origine: USA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO / SPERIMENTALE
Specifiche tecniche: 2.35:1,
Produzione: DOGWOOD FILMS, WAYPOINT ENTERTAINMENT

Regia: Terrence Malick

Attori: Antonio Banderas (Barry), Cate Blanchett (Nancy), Christian Bale (Rick), Freida Pinto (Helen), Imogen Poots (Della), Isabel Lucas (Isabel), Joe Manganiello, Joel Kinnaman, Katia Winter (kate), Kevin Corrigan (Gus), Michael Wincott (Herb), Natalie Portman (Elizabeth), Nick Offerman, Nicky Whelan, Ryan O'Neal, Shea Whigham, Teresa Palmer (Karen), Thomas Lennon, Wes Bentley (Barry)
Sceneggiatura: Terrence Malick
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: A.J. Edwards, Geoffrey Richman, Keith Fraase, Mark Yoshikawa
Musiche: Hanan Townshend

Riconoscimenti 


http://www.youtube.com/watch?v=bC-3rnv_b3o

Tags: