dolan«Più tardi si vedono le cose in modo più pratico, pienamente conforme con il resto della società, ma l'adolescenza è il solo tempo in cui si sia imparato qualcosa». Avrà modo di capirlo Hubert, 16 anni tormentati dall’odio, vissuto come una vera e propria dannazione. Perché principio e fine di ambascia e rancore è la propria madre, per lui una pericolosa  antitesi nociva.


«…ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù». Alla fine è questo che Hubert vorrebbe riuscire a far capire a Chantale. Però non è facile avere la consapevolezza e le parole per raccontare con misura il travaglio, riuscire a trovare un adeguamento formale al grumo sentimentale. Per di più  se si hanno 16 anni, età, già di per sé, contraddistinta  da un'endemica irrequietezza evolutiva, cuore di tenebra delle più cupe ossessioni. Occorre essere attenti perché il gesto collerico possa dirsi efficace. Altrimenti rimane soltanto sterile ed incontrollata intemperanza.
Proprio come accade a Hubert, talmente esagerato nel gridare il proprio disperato amore filiale da fargli assumere i toni di un odio furioso. Nei suoi sogni la vede morta, nei suoi sfoghi solipsistici immagina addirittura di ucciderla con le proprie mani, e nulla sembra poterlo riconciliare con una donna di cui biasima i gusti e di cui rifiuta le imposizioni. Quella donna, sua madre, che veste male e si dedica a mediocri passatempi, rappresenta per lui un’antitesi nociva, con cui è pericoloso dialogare e che, oltretutto, limita la sua libertà. È una figura femminile convenzionale, severa e mentalmente chiusa. Come pensare di poterle dire della propria omosessualità? Meglio evitare e, se costretti a dover parlare di lei, seguire l’esempio di Antoine (Doinel), facendola credere morta.

Xavier Dolan esordisce con un soggetto semi-autobiografico, in cui interpreta il ruolo del protagonista. Se il suo personaggio scatena sgorghi incontrollati di energica rabbia in fiumi di parole e eccessi di espressività, al contrario, come regista dimostra un controllo della messinscena tanto calibrato da poter risultare a tratti lezioso. Un fortissimo gusto estetico e una naturale tendenza al dialogo, che ha l’incedere torrentizio del flusso di coscienza. Riprende i personaggi con sguardo decentrato rispetto al piano, dando un effetto-quadro all'inquadratura tanto da farsi, in sostanza, tableau vivant. Una soluzione stilistica simbolicamente speculare all’animo dei protagonisti. Se inquadrati singolarmente Hubert e Chantale risultano periferici relativamente all’asse di ripresa, quando lo sguardo si allarga e li contiene entrambi all’interno del quadro, questi ritrovano equilibrio, dimostrazione che le loro differenze finiscono per disegnare i contorni di un’armonia intrinseca e nascosta, risultato di un legame amoroso che è attaccamento innato e imprescindibile, incondizionato.
J’ai tué ma mère è un film urlato dove la rabbia e il rancore sanno però concedere attimi di immobilità e silenzio, in cui lo stordimento si fa contemplazione. Un lavoro frammentato da flash visionari, aforismi illuminanti, sospesi tra il passato e i desideri in-consci del suo protagonista. Dolan realizza questi inserti attraverso lo step framing per creare un’illusione di rallentamento, per enfatizzare il contrasto fra due tempi diversi. Il film ha così più dimensioni e due diverse velocità, e sfugge sempre. Questi attimi di tensione verso l'istante di tempo sospeso sono i momenti in cui si realizza la piena coincidenza tra inquadratura e dipinto.

Dolan fa parte di quella generazione di nuovi autori, perlopiù francofoni [tra gli altri: Mélanie Laurent (Les Adoptés); Valerie Donzelli (La guerre est déclarée), Maïwenn Le Besco (Polisse)] decisa a tornare a pensare e fare cinema in termini di caméra-stylo: cioè riflettendo sul mezzo e sulla possibilità di utilizzarlo in piena libertà. Questi reinterpretano l’anarchismo avanguardista di messa a nudo del dispositivo filmico tipico della Nouvelle Vague senza però rinunciare al piacere affabulatorio. Si fanno interpreti di un nouveau réalisme. Ma il realismo di questo cinema non è quello dell’identificazione, quanto piuttosto quello dell’immagine. Questi giovani registi vogliono innanzitutto comunicare che ciò a cui ci mettono di fronte è prima di tutto e soprattutto un film. In J’ai tué ma mère rivivono le soluzioni narrative e visive di Truffaut, Godard, Resnais: non si tratta però di sterile decalcomania citazionista; queste infatti vengono rielaborate e adoperate ai fini dello svolgimento, finiscono per essere parte integrante ed indispensabile dell’opera. Dolan è un giovane cineasta cinefilo, ha cultura cinematografica e questo gli permette, a dispetto della giovanissima età (ha diretto il film appena ventenne), una certa concezione della messa in scena fondata su scelte estetiche, opzioni morali, gusti e, più ancora, violenti disgusti.





Titolo: J'ai tué ma mère
Anno: 2009
Durata: 100
Origine: CANADA
Colore: C
Genere: BIOGRAFICO, DRAMMATICO
Specifiche tecniche: (1:1.85)
Produzione: XAVIER DOLAN PER MIFILIFILMS

Regia: Xavier Dolan

Attori: Anne Dorval (Chantale Lemming); Xavier Dolan (Hubert Minel); Suzanne Clément (Julie Cloutier); François Arnaud (Antonin Rimbaud); Patricia Tulasne (Hélène Rimbaud); Niels Schneider (Éric); Monique Spaziani (Denise)
Sceneggiatura: Xavier Dolan
Fotografia: Stephanie Weber-Biron
Musiche: Nicholas S. L'Herbier
Montaggio: Hélène Girard
Scenografia: Anette Belley
Costumi: Nicole Pelletier

Riconoscimenti


Reperibilità


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