DONO Post VSUn vecchio e una ragazza (una ritardata, una santa, una puttana?); Caulonia e il tempo che pare essersi arenato come una nave lungo una spiaggia; poi un dono, inatteso come un miracolo, e dalla cromatura come quella del cielo.

 

 

 

Senza tempo l’immagine è solo un’impronta di luce. È pari al nulla: trova la sua posa, ma vi sparisce. L’inquadratura deve permettere all’immagine di essere abbastanza lunga finché chi guarda vi si riconosca e si perda. Avvicinare premurosamente il fondo vago e indefinito del mondo a qualcosa che si direbbe chiaro e finito, se le cose non fossero mute, lontane, inaccessibili. Il dono, debutto folgorante di Michelangelo Frammartino, tenta l’avvicinamento nel lieve incastro di inquadrature lunghe a tal punto da sospendersi. Tale sospensione però vanifica in parte la chiarificazione delle cose: dopo un primo riconoscimento, esse sfuggono, liberate dalle coordinate spazio-temporali, cadendo nel puro ordine estatico dell’espressione. In tal maniera, seguendo la via illustrata da un’ ipotetica mappa geografica espressiva del cinema, le rughe sul volto stanco del vecchio finiscono per somigliare e confondersi alle ripide strade in pietra di Caulonia.

La condizione comune alle immagini è già definita dalla prima inquadratura (il vecchio apre la porta su un pendio tremulo d’alberi, mentre un paniere appeso all’interno è giocato dal vento): lo spazio si raccoglie in una ristretta profondità di campo che lascia intuire tutta la sua verticalità. È su quest’asse, fatto ora di pietra e di terra, ora di bitume e lastricato, che si incontrano il vecchio e la ragazza. A margine, si stende nel paese, fredda e sterminata, la solitudine: nella piazza dove un piccolo cane abbaia nel vento; nella sala da barbiere, dove l’immagine di un corpo nudo e dal seno giunonico di una donna campeggia su un muro spoglio; nel pallone sfuggito alla presa di un ragazzino, e che prima di saltare nel vuoto di un precipizio, conosce gli spigoli, gli angoli, l’ombra delle arcate nella forza di gravità.
A una discesa rapida e veloce, che sa di vita, segue un ritorno faticoso, una salita dolorosa, dove il corpo della ragazza, che sembra essere l’unico corpo fresco e giovane del paese, cede al sacrificio, su un altare che è un sedile inclinato all’indietro di un’auto ferma in un vicolo di campagna. Spezzando il pane e versando il vino, come nell’Ultima Cena, il vecchio, invece, prima di accommiatarsi dalla vita, rifiuta l’invito della giovane, già pronta a concedersi, liberandola definitivamente nel dono di un motorino dalla cromatura come quella del cielo. Così Il dono si giustappone, per la stessa leggerezza e tensione metafisica, a Le quattro volte, dove in un silenzioso scorrere d’immagini, il corpo del pastore sembrerà ricominciare la vita nel maggiare di una capretta appena nata, nell’imponenza di un tronco d’abete, nel grumo nero del carbone che, nell’ultima e magnifica inquadratura, fumerà da una canna fumaria nell’aria di una fredda mattinata.

Dopo essersi consacrato con Alberi (2013) - cortometraggio che sembra chiudere quella che potremmo definire una trilogia – possiamo affermare, senza troppa fatica, che Frammartino, per via di immagini potenti e limpide, dal ritmo lento e bucolico, lontano da qualsiasi forma di compiacimento, si accosta a un’idea di cinema che rifugge la tendenziosa impostura della rappresentazione; perché è forte il desiderio di guardare dentro, di scoprire il segreto delle cose.

 


 

Titolo: Il dono
Anno: 2003
Durata: 80
Origine: Italia
Colore: C
Produzione: Laetizia Dradi

Regia: Michelangelo Frammartino

Attori: Angelo Frammartino (il vecchio), Gabriella Maiolo (la ragazza)
Fotografia: Mario Miccoli
Montaggio: Michelangelo Frammartino
Sceneggiatura: Giuseppe Briglia, Ferdinando Ritorto, Nicola Ritorto
Costumi: Lucia Perin

 

Riconoscimenti

Tags: