Here manebimus optime.

L’ultimo film di Zemeckis scava una faglia colossale tra punti di vista agli antipodi, da una parte gli Stati Uniti, dall’altra parte l’Italia. In patria, infatti, Here è giudicato più o meno unanimemente un fiasco: un esiguo 37% di gradimento sull’aggregatore Rotten Tomatoes, con critiche al vetriolo che malcelano irritazione, se non addirittura acredine, per l’opera.

In Italia, mutatis mutandis, Here campeggia in numerose classifiche dei migliori film 2024, accompagnato da giudizi che esprimono empatia, partecipazione commossa al racconto messo in scena dal Maestro. Una dicotomia assai netta, sulle cui ragioni si può indagare. La messa in scena, appunto. Here è la trasposizione, pare parecchio fedele, dell’omonima graphic novel vergata da Richard McGuire: racconta storie di Americani succedutisi in uno stesso luogo, nei millenni, nei secoli, negli anni.

L’idea di McGuire è di incastonare lo spazio in un punto di vista fisso, ed il tempo in un formato grafico, cioè in una successione di box rettangolari che prendono posto variamente nelle pagine. Lo spazio è statico, il tempo è dinamico. Non si tratta solo di tempo che passa, ma di tempo che si sovrappone, che coesiste in modo non lineare, e qui viene bene quanto Manchevski faceva dire ad un suo personaggio, in Polvere, a proposito dell’URSS: “le epoche non si succedono, ma coesistono”. Curioso che qualcuno abbia trovato calzante la suggestione, anche da questa parte della Cortina. L’idea dei “ritagli di tempo”, in senso letterale e visuale, è piaciuta così tanto a Zemeckis che il suo approccio all’opera è stato filologico. Fisso il punto di vista, angolare e non centrale, che da outdoor nella preistoria diventa indoor nella colonizzazione quindi nell’antropizzazione (o nell’umanizzazione), per consolidarsi nello sguardo laterale all’interno di un salotto domestico. Una casa, le persone che vi hanno abitato, che vi abitano, vi abiteranno. Un microcosmo umano in cui non esiste un centro, ma esistono fulcri variabili di narrazione. Microcosmi quintessenzialmente americani, e qui viene da pensare a Richard Linklater, la sua opera in gran parte rivolta alla ricerca emozionale del tempo perduto born in the USA, ma anche a Fincher ed al suo Benjamin Button. Zemeckis sceglie di collocare in questa sua capsula del tempo attori che gli sono molto cari, Tom Hanks e Robin Wright, modificandoli morfo-anagraficamente affinché il loro divenire coincida con il tempo rappresentato dal film. 

Per farlo, ricorre massivamente alle nuove nuovissime tecnologie, alla famigerata intelligenza artificiale. Questo gli vale la critica più paradossale, quella di aver disumanizzato – artificialmente – la sua storia, di aver trasformato una saga americana nell’esibizione onanistica avanguardistica di montaggio e postproduzione. Zemeckis non si è sottratto al confronto con i farisei ed ha fermamente ribadito che la sua opera, da sempre, guarda alle possibilità offerte dalla tecnologia per rendere il racconto il più emozionale possibile. I capolavori che ha firmato negli anni, da Ritorno al Futuro a Forrest Gump, da Benvenuti a Mawen a Pinocchio, sono lì a dimostrarlo. Per Zemeckis, tecnologico e umano sono complementari, così come lo sono il tempo e lo spazio; il suo obiettivo è portare lo spettatore, dal punto di vista fisso della sua poltrona, dentro mondi lontanissimi eppure riconoscibilissimi, un “al di fuori” che scava in un “di dentro”. Per tornare a Here, i fulcri di narrazione sono molteplici e diversamente ponderati, secondo la funzionalità delle epoche rappresentate alle esigenze del racconto. Il fulcro prevalente è la saga della famiglia Young, nomen omen, che occupa l’immanenza dello spazio rappresentato a partire dagli anni 50 del ventesimo secolo, fino allo scavallare del nuovo millennio.

La fine della guerra, il boom economico, i figli che crescono, i genitori che invecchiano, i figli che diventano genitori ed invecchiano parimenti, i concepimenti, le nascite, i matrimoni, i funerali. Una famiglia della piccola borghesia americana raccontata nella banalità del reale, con tenerezza ma senza eroismo, in prospettiva ma senza alcuna vocazione medianica a governare lo spazio, il tempo, il mondo. È questa la ragione dello iato di giudizio tra USA e Italia? Here è un caleidoscopio di “ritagli di tempo” che appaiono e scompaiono, alcuni in modo più rapido, altri in modo più durevole, quasi prepotente. La vita scorre qui ed ora (quale ora?), here et nunc, ma non è tutto: quello che succede qui è una rappresentazione di quello che c’è fuori dall’inquadratura. Fuori dalla finestra, dietro la lente della macchina da presa. Nella capacità preterumana di tenere unite queste dimensioni, giocando con le regole programmatiche di messa in scena che lui stesso si è imposto, Zemeckis realizza l’ennesimo capolavoro, e pone a noi cinefili commossi la più suggestiva delle domande: e se quella famosa caverna di quel famoso filosofo non fosse altro che il muro del nostro salotto, o la finestra della nostra camera?

P.S: il rettangolo è il leit motiv geometrico della rappresentazione. Il rettangolo è un espediente tecnico e tecnologico, ha una funzione d’uso e di sguardo eminentemente borghese. Il rettangolo, dunque, è ideologico. Si legga a proposito lo straordinario, rivelatorio “Figure – Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram”, di Riccardo Falcinelli (ed. Einaudi).