Nella periferia di Taipei, al Fu-Ho, un cinema prossimo alla definitiva chiusura, si proietta, in una notte di pioggia sferzante, un wuxiapian del 1967, dal titolo Dragon Inn. Tra gli angusti corridoi, i sottoscala, i magazzini, i bagni di questo fatiscente edificio, si muoverà un corteo di spettri, un’erranza di fantasmi, un vagare di sonnambuli come mossi dai ricordi puri del sogno e del contatto umano.

È di qualche giorno fa l’annuncio della prossima distribuzione in Italia di Stray Dogs da parte della Movies Inspired. Il penultimo film di Tsai Ming-liang – dato per ultimo, prima della presenza inattesa alla berlinale con Journey to the west – l’anno scorso, a Venezia, aveva suscitato un gran clamore tra il pubblico e i critici: ce ne stavamo noi della redazione quasi al completo nel foyer della Sala Perla, ad aspettare le prime voci dalla visione, visto che avevamo preferito Garrel in Darsena, per poi recuperare l’indomani Stray Dogs in Sala Grande con regista e attori in sala. Una calda giornata di inizio settembre impreziosita da un curioso e casuale sovrapporsi all’interno del programma di due registi che hanno mutato radicalmente il mio modo di vedere il cinema e la realtà – se si vuole essere così categorici da tracciare una netta linea di confine tra ciò che chiamiamo cinema e ciò che diciamo realtà. Philippe Garrel e Tsai Ming-liang, separati geograficamente, ma avvicinati da un’idea di cinema, che pare rivelarsi in quella medesima maniera di demandare ai propri spettri, ai corpi attoriali, una preghiera lieve e sommessa che sembra spiegarsi come un lenzuolo raggrinzito troppo a lungo o galleggiare come un grande materasso fuori dal tempo: stiamo un po’ insieme?
Sì, perché dai loro personaggi, quei malinconici ritratti che vibrano silenziosi e consapevoli del loro continuo mancarsi, emerge chiaramente il desiderio di aprirsi verso l’altro, in uno spazio dalla prospettiva provvisoria e incerta, lontano dalla prolissità e dalla vacuità fagocitante dell’esistenza.

Ma tralasciamo Garrel, uno dei figli maggiori della Nouvelle Vague, e soffermiamoci sul regista taiwanese, che se vogliamo, può essere definito, in qualche modo, anch’egli figlio, seppur illegittimo, di quell’ondata francese - e penso, ad esempio, all’esplicito omaggio a Truffaut nel meraviglioso Che ora è laggiù?. Film, quest’ultimo, che a inizio dello scorso decennio, inaugurava quell’importante parabola produttiva della Homegreen Films, casa filmografica di Tsai Ming-liang. Due anni più tardi, seguiva invece Goodbye Dragon Inn (2003) che, con lunghe e statiche inquadrature all’interno di una sala cinematografica vuota e spettrale, aveva fotografato perfettamente il periodo critico della produzione cinematografica di Taiwan, dove, ancora memori del successo a Cannes di Edward Yang, si assopiva il fermento new wave che era sbocciato negli anni Ottanta.
In Goodbye Dragon Inn, sesto lungometraggio di Tsai, la narrazione appare come un velo su di cui la traccia autoriale si sottrae in favore di una forma di neutralità che sta nell’immanente affiorare dei corpi e delle cose. Viene a imporsi la potenza dell’immagine, un’immagine tattile ispessita da un sonoro ruvido, che scardina l’inquadratura all’infinita profondità del fuori campo, dove è continuo lo scroscio della pioggia, che pare simulare, amplificandone la portata, le dinamiche invasive e logoranti dello scorrere del tempo. Si è davanti a un cinema che si tiene da solo per la forza interiore dello stile, che coincide con il modo assolutodi vedere le cose senza alcun correlato esteriore1, talmente potente da potersi defilare e restare imperante proprio nella sua assenza.

Sembra chiaro che Tsai Ming-liang si muova su territori antitetici al cinema classico - dove l’autore viene ad assumere la figura del creatore, di colui che maneggia «la materia per enucleare una trama, a dispetto [di quei] meccanismi di apparizione» (Abiusi in AA. VV., pag. 26) che erano propri delle avanguardie, e sono fondanti per quel cinema contemporaneo, di cui Tsai fa parte, che una frangia di critici dall’impostazione deleuziana ama definire contemplativo. Meccanismi di apparizione che sembrano aderire all’esigenza estetica di lunghi e statici piani-sequenza, a scandire la presenza delle cose e dei corpi e «il rapporto tra il visto e il visibile, cioè quella dialettica tra forme finite, delineate, e forze essenziali, latenti eppure istitutive di ciò che appare, [e] che si svolge mostrando l’invisibilità, come un fuoco centrale fluente nello spazio-tempo cinematografico» (ibidem, pag. 19).
Come non dare ragione allora a Merleau-Ponty - ed è sempre bene ricordarlo - il quale sosteneva fermamente che il cinema si caratterizza prima di tutto non per ciò che mostra, bensì per ciò che non mostra - dal momento che la visione vi si configura essenzialmente come possibilità anziché come effettualità, ed è sempre l’invisibile che condiziona, determina e costruisce il visibile. È dunque l’immagine stessa, nella sua aperta conformazione, in quanto potenzialità, possibilità di inattesa apparizione, e dunque di effettualità, di incarnazione delle essenze, a dire della latenza e della natura invisibile di queste presenze inconsistenti ed evanescenti, di quest’erranza di fantasmi – il cinema è infestato dai fantasmi, dirà un uomo distinto al giovane giapponese dagli occhi febbrili – di questo vagare di sonnambuli come mossi dai ricordi puri del sogno e del contatto umano.


Nota

1 «ciò che mi sembra bello, quello che vorrei fare, è un libro su nulla, un libro senza correlato esteriore, che si tenesse da solo per la forza interiore del suo stile, come la terra che si tiene nell’aria senza appoggiarsi, un libro che non avrebbe quasi soggetto, o in cui il soggetto almeno sarebbe pressoché invisibile» (Flaubert 2006, pag.123).


Bibliografia

AA. VV. (2012): Il film in cui nuoto è una febbre. 10 registi fuori dagli sche(r)mi, a cura di L. Abiusi, Caratteri Mobili, Bari.

Flaubert G. (2006): L’opera e il suo doppio, a cura di F. Rella, Fazi, Roma





Titolo originale: Bu San
Anno: 2003
Durata: 82
Origine: TAIWAN
Colore: C
Genere: SENTIMENTALE
Specifiche tecniche: 35 MM (1:1,85)
Produzione: LIANG HUNG-CHIH E VINCENT WANG PER HOMEGREEN FILMS

Regia: Tsai Ming-liang

Attori:
Lee Kang-sheng, Chen Shiang-chyi, Miao Tien, Kyonobu Midamura, Shi Jun.
Soggetto: Tsai Ming-liang
Sceneggiatura: Tsai Ming-liang
Fotografia: Liao Ben-Rong
Montaggio: Chen Sheng-Chang
Scenografia: Lu Ly-Ching

Riconoscimenti

Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=zHMxMJ6qkOU

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