altL’espressione di un volto o le pieghe del deserto hanno in comune – nel film di Bartas – la stessa frequenza cardiaca interna. Dune dalle crepe del vento dove ogni spostamento d’aria produce uno scardinamento maggiore degli spazi, degli angoli degli occhi allargati e allagati ma ancora così claustrofobici.




Per Bartas l’immagine deve contenere tutto, quasi sorreggere i corpi che ospita, immobili: ogni gesto produce uno sprofondamento nella terra, nella sabbia che disegna scie o vie pronte alla sparizione. Anche il mare si disegna nella forma di un liquido invalicabile, si riprende lo spazio, occupa l’intera inquadratura, trama nel movimento della schiuma ed è proprio per questo che Freedom contiene già dal titolo una contraddizione interna: di quale libertà stiamo parlando? Ogni personaggio è un naufrago, perduto nel deserto che non ha confini (e mi piace pensare agli esuli angelopoulosiani senza ritorno). Storia, identità: tutto è cancellato, anzi seppellito dal vento che incrosta persino le pareti degli occhi, dove anche il corpo con la sua pesantezza uccide ogni rintracciabilità di vita: diventa ombra.

«Tutto l’avvenimento è, per così dire, nel tempo in cui non avviene nulla» (Deleuze 2010, pag.115): l’occhio si posa sul perdurare del paesaggio e del giorno e, perdurando, lo trasforma in qualcos’altro, è quel mistero che mescolandosi con l’aria s’alza in sospensione (il vento che chiama il deserto in Freedom), disegna scie di fuoco sul pavimento (Koridorius) e fiorisce (The house). Bartas mostra il tempo di metabolizzazione dell’immagine: essa è aperta, distesa sotto i nostri occhi nudi e crudi che osservano a loro volta lo sguardo nudo e crudo di una bambina che sugge il vento, la luce, sugge la vastità del deserto, e che è nulla: è forse così che si sta all’origine del mondo prima che l’occhio si richiuda? 

Il cinema di Bartas si compie così, per assimilazione: i suoi personaggi si scoprono per contatto con l’elemento che li circonda. C’è questa comunicazione visiva che non ha bisogno d’altro; non c’è narrazione - «Tutte le parole sono state dette. Dette internamente» in The house - e non c’è azione. È un cinema che dice il silenzio, perde la parola e la snocciola nella vibrazione del suono degli elementi che fanno il mondo: l’acqua la senti tremare, gli uccelli sbattere le ali e anche l’aria accenna sensibilità. Non serve altro in Freedom se non quella carezza di un uomo esule che invade la guancia di una bambina esule per riconoscersi umani prima del(l’) (in)finire del giorno, prima di dirsi come ultima e muta battuta, addio.


Bibliografia

Deleuze G. (2010): L'immagine-tempo, Ubulibri, Milano.





Titolo: 
Freedom
Anno: 2000
Durata: 96 min
Origine: Francia, Portogallo, Lituania
Colore: C
Genere: Drammatico
Produzione: Cultural Ministry, Eurimages, Gémini Films, Hubert Bals Fund, Kulturus Ir Sporto Remimo Fondas, Madragoa Filmes, Ministère de la Culture de la Republique Française, Studio Kinema

Regia: Sharunas Bartas

Attori: Valentinas Masalskis (The Man), Fatima Ennaflaoui (The Girl),  Axel Neumann (The other)
Musica: Kipras Masanauskas

Riconoscimenti


http://www.youtube.com/watch?v=fCzQJOBfiZM


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