Michele Sardone

forestUn aspirante suicida abbandona il proprio cane, unico suo amico, ad una esterefatta sconosciuta; due ragazzi parlano di un ospite misterioso; un padre non si capacita della pubertà della figlia; un uomo piange il suicidio dell’unico amico, senza trovare conforto nella sua compagna; una donna racconta uno scabroso ricordo della sua adolescenza; due ragazze si mettono alla ricerca di un misterioso amico perso nella foresta... e nel mezzo del fluire di queste storie, la leggendaria apparizione del gigantesco pesce gatto.

 

Se la filosofia si fa pop e s’affanna a cercare nel quotidiano – fino a deformarlo – riverberi dell’universale per far sì che l’individuo solipsista veda se stesso come un eroe e la propria biografia come un’epopea, allora non resta che all’arte farsi viatico dell’universale e riversarlo nel particolare della vita dell’uomo affinché si schiuda all’alterità.
Questo pare essere il fine dell’opera di Benedek Fliegauf (Budapest, 1974) uno dei migliori cineasti ungheresi della sua generazione, che al Festival di Locarno del 2010 ha vinto il Pardo d’Oro con il suo terzo (senza contare i documentari) lungometraggio, Womb.
Già nel suo lungometraggio d’esordio del 2003, Rengeteg (meglio conosciuto con il titolo inglese Forest) si possono intuire i prodromi di quell’inquietudine – per nulla esistenzialista, ma, ancora, dovuta alla distonia fra universale e quotidiano – che troverà una forma stilistica più omogenea in Dealer, suo secondo film prodotto l’anno dopo. Per la maggiore compiutezza dei lavori successivi, si sarebbe tentati di considerare Forest il tipico film a episodi girato praticamente senza fondi, di un regista promettente ma acerbo, discontinuo, che non ha ancora ben definita la materia del suo tendere, ma che si limita a registrare la realtà del tempo nel suo confuso fluire senza alcuna finalità interpretativa. Nulla di più fuorviante.

In Forest Fliegauf rispetta con rigore maniacale i canoni della cinematografia indipendente – camera a mano instabile che si muove convulsa e senza stacchi, dialoghi verbosi, primi piani soffocanti, trama esteriormente sfilacciata e inconcludente – e un tale rigore è già una prima divergenza dalla sedicente genuinità accampata da cosiddetti filmaker tanto compiaciuti nel definirsi underground. Le storie del film sono sì accomunate dal grottesco, ma al di là di questo il ripetitivo proporsi delle medesime forme stilistiche suggerisce il rispetto di uno schema.
Forest
si compone di sette episodi, più una sorta di prologo che coincide quasi perfettamente con l’epilogo, e tre brevissimi intermezzi che hanno funzione di raccordo. Nel prologo la camera a mano indugia sui volti di una folla, a prima vista scelti a caso, trasmettendo l’incombenza di una tragedia. La molteplicità (da qui il titolo, a indicare una “selva” nel senso non letterale) viene data non nel suo insieme ma  alternando elementi singoli e in apparenza slegati fra loro, se non per la condivisione dello spazio in cui sono capitati fortuitamente. Il senso del tragico oltrepassa tutto il film: esso viene rappresentato dall’incontro con l’altro che si rende portatore di istanze universali che trascendono il singolo, che si ritrova inadeguato ad affrontarle. In questo modo, i primi piani ossessivi alludono alla concentrazione dell’individuo sul suo esclusivo punto di vista; i dialoghi verbosi diventano monologhi fra soggetti incapaci di intendersi; la camera coi suoi movimenti convulsi partecipa all’affanno dei personaggi.
Le trame poi non si intrecciano fra loro, ma si respingono le une con le altre. I temi dei primi tre episodi – il suicidio vissuto come abbandono dell’unico amico; il rapporto tra uomo e natura; la connessione tra sessualità e trasmissione intergenerazionale della colpa – vengono ripresi ribaltandone la prospettiva e mutando ambiente e personaggi.

Il meccanismo che si instaura fra le storie è sempre il medesimo: nei primi tre episodi si assume il punto di vista dell’agente, che trova il corrispettivo patente nella seconda trilogia. Con intelligenza Fliegauf non fa una mera giustapposizione di storie analizzate da due sguardi contrapposti, il carnefice da una parte e la sua vittima dall’altra, non gli interessa dimostrare l’inattingibilità di una verità unica e obiettiva: sfuggendo all’inevitabile cortocircuito proprio di una narrazione che si specchia in se stessa, Fliegauf crea una struttura comunicativa tra i personaggi, basata non sulla simmetria ma sulla corrispondenza fra gli opposti.
In questi termini, il film potrebbe presentarsi come infinito (e non finito): la concatenazione delle storie e i rimandi di ognuna di esse potrebbero dispiegarsi senza fine nel tempo, in una demente coazione a ripetere, ogni individuo intrappolato di volta in volta dall’agire e dal patire nei confronti del proprio simile, visto ora come oggetto ora come soggetto di un rapporto di forza.

Per fortuna ci viene offerta la possibilità di una via d’uscita. Nel quarto episodio, incastonato fra le due trilogie, e che da questa posizione centrale irradia una tenue luce sul resto del film, viene raccontato un evento soprannaturale, nel senso che va al di là, per eccesso, delle cose sensibili che ci vengono date in natura. Una tale eccedenza è insopportabile per l’individuo, non è esperibile con i suoi soli mezzi: l’unica salvezza è nell’accettazione, un dire di sì alla vita e alla sua imponderabilità. Questo non getta l’uomo nel supino fatalismo, al contrario: lo induce ad accogliere l’universale senza alcuna pretesa di ridurlo alla finitudine di sè. E la porta attraverso cui accedere all’universale è data proprio dall’altro e dalla conoscenza che di esso si fa attraverso la comunicazione. Nell’epilogo troviamo le stesse facce che tanto ci avevano inquietato all’inizio. Le riconosciamo, sono quelle dei personaggi che abbiamo conosciuto durante il film. L’inquietudine viene sostituita da un senso di familiarità, di comunanza, cadono i “noi e loro”: nel gesto finale, unica differenza con il prologo, c’è il nostro farci carico dell’alterità.

 


Titolo: Forest
Anno:
2003
Durata:
90 min
Origine:
UNGHERIA
Colore:
C
Genere:
DRAMMATICO
Specifiche tecniche:
35 mm (DVCAM)
Produzione:
Inforg Studio

Regia: Benedek Fliegauf

Attori:
Rita Braun, Barbara Csonka, Gábor Dióssy, Bálint Kenyeres, Edit Lipcsei, Péter Félix Mátyási, Katalin Mészáros, Péter Pfenig, Ilka Sós, Lajos Szakács, Juli Széphelyi, Fanni Szoljer, Márton Tamás, Barbara Thurzó, Dr. Dusán Vitanovics
Sceneggiatura:
Benedek Fliegauf
Fotografia:
Zoltan Lovasi
Montaggio:
Lili Fodor
Scenografia:
Andras Muhi

 

Riconoscimenti

Reperibilità

 

http://www.youtube.com/watch?v=eJbE2sYyrSM

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