alt«A metà percorso tra West Egg e New York l’autostrada raggiunge bruscamente la ferrovia e la costeggia per quasi mezzo chilometro come per evitare una zona desolata. È la valle delle ceneri: una tenuta fantastica dove le ceneri crescono come il frumento, creando alture e colline e giardini grotteschi; dove la cenere assume la forma di case coi camini e il fumo che ne esce, e infine, con uno sforzo di fantasia, di uomini grigio-cenere che si spostano confusamente e già in via di disfacimento nell’aria polverosa. Di quanto in quando una fila di carri ferroviari grigi arriva strisciando su una rotaia invisibile, emette uno scricchiolio spettrale e si ferma; e subito gli uomini grigio-cenere sciamano con le vanghe di piombo, e sollevano una nube impenetrabile che nasconde le loro operazioni misteriose» (Il grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald)


Nel giugno 2012 l’ormai ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, rivelò durante un discorso pubblico che la celebre “valle delle ceneri” de Il grande Gatsby fu ispirata da un luogo realmente esistito e ancora oggi esistente: Willets Point, nel Queens di New York. In quell’occasione, il primo cittadino della Grande Mela annunciò orgogliosamente che quest’area dimenticata e incancrenita dal tempo e dai rifiuti, finalmente sarebbe stata rivalorizzata. Venne così avviato un piano da 3 miliardi di dollari per la riqualificazione e il rilancio di Willets Point, destinato a diventare nel progetto di Bloomberg uno dei nuovi poli per lo sviluppo urbano della città. In realtà, l’operazione, già programmata anni prima, ancora una volta non venne realizzata, arenandosi a causa di rallentamenti, interruzioni e difficoltà di sorta, all’esordio della cosiddetta “Fase 1”. Così, ancora oggi, prendendo la linea 7 della metropolitana di New York, è possibile scendere alla fermata “Mets-Willets Point” e arrivare in quel luogo dove “the sidewalk ends”: un’altra «zona desolata che nel resto dello stato viene definita “laggiù”» (A sangue freddo, Truman Capote).

Proprio in quel “laggiù”, nell’estate del 2008, finì per caso la giovane filmmaker e antropologa francese Véréna Paravel. Stava realizzando una serie di filmati dal taglio etnografico seguendo la scia del treno n. 7 (filmati poi confluiti nel suo primo cortometraggio, 7 Queens), quando a un tratto si trovò al cospetto di un enorme cimitero di lamiere, un labirinto di ferro e fango che si distende all’ombra di una cattedrale del capitalismo, lo stadio Citi Field dei New York Mets. Willets Point, conosciuto anche come “Iron Triangle”, è una zona industriale in stato di abbandono, destinata da sempre alla demolizione. Non vi sono né marciapiedi né rete fognaria, ma come funghi vi si annidano dozzine di autorimesse e piccole officine specializzate nella compravendita di pezzi di autovetture. È un grande mercato di organi e arti meccanici, un ospedale in rovina dove medici chirurghi senza licenza operano su corpi morenti o carcasse arrugginite, dissezionando, collezionando e rivendendo ogni loro componente.

Foreign Parts nasce dalla voglia di raccontare cosa si nasconde sotto la cenere. Girato tra il 2008 e il 2009, prodotto dal Film Study Center e dal Sensory Ethnography Lab dell’università di Harvard, con il supporto del LEF Moving Image Fund, il primo lungometraggio di Véréna Paravel e J.P. Sniadecki è un’opera documentaria di sconcertante umanità. Nel corso della pellicola, tra montagne di copertoni, cumuli di marmitte, campionari di cerchioni, specchietti, finestrini, emergono pian piano le storie di Joe, Julia, Sara e Luis, Marco, Diablo, Moe, Manny e di tante altre persone che a Willets Point ci vivono, e che lottano per sopravvivere in un luogo che rischia di estinguersi sotto gli ordini di espropriazione forzata dell’amministrazione cittadina. I due registi entrano in questa enclave e ne offrono uno spaccato estraneo a facili sentimentalismi o a discorsi morali. Essi si limitano a gettar luce su quegli «uomini grigio-cenere» che immaginava Fitzgerald, rivelandole i volti, le voci, scoprendo così un microcosmo sfaccettato e multietnico, una “piccola Grande Mela” abitata da gente proveniente dal Sud America, dall’Afghanistan, da Israele, dall’India, dalla Cina, e ormai prossima ad una programmata cancellazione.

Sono rare le riprese dall’alto in Foreign Parts: la mdp è posta ad altezza uomo, a volte è rivolta verso il basso quasi in segno di ritegno; silenziosamente segue i passi dei protagonisti, entra con discrezione nelle loro dimore, esita su certi dettagli forse perché cosciente che ogni taglio, ogni stacco di montaggio, potrebbe essere l’ultimo. Spesso si sentono le voci fuori campo dei due filmmaker mentre dialogano con la gente del posto. In un’occasione J.P. Sniadecki chiede il permesso per poter continuare a filmare; poco dopo, in una delle sequenze più belle del film, Véréna Paravel addirittura compare nella ripresa per abbracciare Luis, appena ricongiuntosi con Sara. Viene così per un momento infranta l’ipotetica barriera che separa i cineasti dall’oggetto filmato. Per riprendere ancora Il grande Gatsby, è come se lo sguardo impassibile del dottor T.J. Eckleburg che sovrasta la valle delle ceneri si fosse ad un certo punto sciolto e mescolato tra le anime che abitano questo angolo dimenticato del Queens.

Questa apertura, però, anche quando realizza uno sconfinamento come nella scena appena citata, non prescinde mai da una mediazione, che per prima cosa è quella della lente cinematografica: il dottor T.J. Eckleburg osserva pur sempre attraverso i suoi «enormi occhiali gialli». I due registi ne sono perfettamente consci e fin dalle primissime scene sembrano voler denunciare la natura intrinsecamente filmica della loro opera: un treno in corsa riflesso sulla carrozzeria lucente di una macchina pare alludere chiaramente allo srotolamento di una pellicola su di un proiettore. Con una certa regolarità si susseguono riprese di specchietti retrovisori, finestrini, cofani, superfici che riflettono qualcos’altro (il mondo reale), che lo delimitano e ne restituiscono un’immagine. Anche le tante pozzanghere che a macchia di leopardo segnano il suolo di Willets Point favoriscono questo processo di duplicazione. È un modo per astrarre il discorso, per renderlo universale, pur rimanendo saldamente attaccati alla vicenda raccontata. Un modo per fare cinema allo stato puro.

È per questa ragione che Foreign Parts resta ancora oggi un’opera di stupefacente attualità, anche se sono trascorsi ormai quattro anni dalla sua presentazione alla 63a edizione del Festival del Film Locarno (dove peraltro si aggiudicò importanti premi: Pardo per la miglior opera prima, Premio speciale della giuria Cineasti del presente).
È un film che riesce a conferire dignità a persone e luoghi che di norma vengono ignorati o respinti o, peggio ancora, strumentalizzati; che ne restituisce la fragilità sepolta sotto un contesto così duro; una pellicola che trova la poesia in un mondo di ferraglia e fanghiglia, semplicemente ponendosi in ascolto e osservando in silenzio, senza mai enfatizzare o caricare eccessivamente le immagini: la breve sequenza della battaglia di palle di neve, ad esempio, o la musica che proviene da un furgone dei gelati che come un carillon culla alcuni dei protagonisti ripresi nel mentre delle loro esistenze.  
Allo stesso tempo è un film che racconta gli Stati Uniti al tempo della crisi economica e che, più ancora, aggiorna la riflessione sull’American Dream e sulle sue contraddizioni: l’automobile, che da sempre nell’immaginario collettivo richiama a sé il concetto di libertà, è qui mostrata come vera e propria vittima sacrificale. In certe scene che mostrano lo smantellamento di alcuni autoveicoli, è quasi impossibile non pensare allo sgozzamento o alla decapitazione di un animale. Sono immagini violente, che fanno il paio con la violenza che la nazione americana infligge a tante persone che la abitano. Come la gente di Willets Point, presa in considerazione dalle autorità solo per essere sgomberata, senza nemmeno un mezzo piano di ricollocamento. “Foreign parts”, letteramente “parti estranee”: il titolo del film parla da solo.

Eppure anche in questa valle delle ceneri è issata e sventola la bandiera a stelle e strisce. Viene mostrata per qualche secondo nel penultimo stacco di montaggio, mediante quella che mi pare sia l’unica ripresa dall’alto dell’intero film, nonché la sola, forse, non riconducibile allo sguardo orizzontale dei due registi: è il punto di vista rigido e verticale dell’intera nazione, che guarda senza vedere, dall’alto verso il basso, impassibile e indifferente, i suoi figli disconosciuti. L’ultima inquadratura del film, di nuovo orizzontale, è l’immagine di un tramonto.





Titolo:
Foreign Parts
Anno: 2010
Durata: 81'
Origine: USA; Francia
Colore: C
Genere: DOCUMENTARIO
Produzione: Véréna Paravel, J.P. Sniadecki con il supporto di: Harvard Sensory Ethnography Lab; Harvard Film Study Center; LEF Moving Image Fund

Regia: Véréna Paravel, J.P. Sniadecki

Montaggio: Véréna Paravel, J.P. Sniadecki
Fotografia:
Véréna Paravel, J.P. Sniadecki
Suono:
Véréna Paravel, J.P. Sniadecki
Missaggio:
Ernst Karel
Post-produzione:
Modulus Studios

Riconoscimenti

Reperibile per 30 giorni su:

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