FLOR_1«Alzai gli occhi e vidi…» Dove non siamo stati. Lo sguardo scivola lentamente tra le ante socchiuse di un balcone. Una veduta. Spiraglio di aria e di luce. E si posa sui riflessi azzurri delle acque del mare, su cui, un attimo dopo, si prende a scorrere, cullati dalle onde che ripetono la loro nenia urtando contro lo scafo della nave.

Si è già in viaggio tra le immagini, quasi senza essercene accorti; si è già alla ricerca di altre immagini, che traspaiono come un rapido battere di palpebre che aprono e chiudono gli occhi alla luce. Da qui, sopra il mare. E in un cielo ricoperto di nuvole un uccello taglia orizzontalmente l’inquadratura perdendosi nel fuori campo. È ciò che mi resta negli occhi, impresso in essi, dell’inizio di Flòr da Baixa di Mauro Santini.


Il cielo e le nuvole sulla costa di Lisbona e il mare che la bagna all’inizio del lungo viaggio dalla città lusitana a Rio de Janeiro, prima di ritornare, passando per Marsiglia e Taranto. «E il cielo nuvoloso esiste, a patto che io alzi lo sguardo… invece di tenere gli occhi fissi davanti a me senza muovermi» (Jean-Luc Godard). Il movimento del cinema e della memoria. Del tempo. Vissuto in dissolvenza. Come leggero dissolversi. Il nostro distenderci in esso come fascio di ricordi e di attese. Desiderio che esso possa ripassare e riposarsi dentro di noi (forse non è un caso che il regista abbia raccolto i primi cortometraggi da lui diretti sotto il titolo di Videodiari). E già nella parte finale di Dietro i vetri, cortometraggio del 2002, lo sguardo di Mauro Santini fissava, in un meraviglioso piano sequenza, il lento svanire di una nuvola in un cielo sereno. Sguardo posato sulla lenta fuga di un’immagine, sul suo passare.

Come se lo sguardo, e con esso l’immagine, non può che accompagnare lo sfinirsi, il perdersi e il naufragare della vita nella durata reale dell’esistenza, più che trattenerla, per viverne, più intensamente, il miracolo del suo spontaneo e improvviso ritornare alla luce, a fluttuare sulla liquida superficie degli occhi. «Improvviso il ricordo di quella casa abitata per un mese. Estate del ‘72. Piena campagna. Il mare a pochi chilometri. Cicale, girini pescati coi barattoli, lucertole sui muri», recita la voce fuori campo nel cortometraggio dal titolo Di ritorno del 2001, accompagnata dallo sgocciolio del tempo e dal frinire delle cicale.

Improvviso, come se un nuovo mondo, per quanto già vissuto, riprendesse a vibrare. Uno scatto inaspettato del cuore, aritmia di stupore e di inquietudine, e poi di nuovo il suo pulsare regolare. Le immagini di Flòr da Baixa, e del cinema di Mauro Santini, mi riportano alla mente la metafora più bella della poesia del Novecento: «Il tuo cuore che batte/giorno e notte/tamburo di sangue/telaio di addii» di Eduardo Mitre. Ecco l’unica misura possibile del tempo e del cinema (semmai il tempo e il cinema possano essere misurati): il battito di un cuore trapiantato nelle immagini stesse.

È possibile continuare a dialogare con le immagini solo lasciandole libere di rivelarsi. Di lasciarle essere. Di lasciarle accadere. Di lasciarle avvenire. Accoglierne il controcampo, sapendo di non poterlo fare proprio. Ecco, forse, perché nelle sequenze di Flòr da Baixa, come in altri lavori di Mauro Santini, le cose traspaiono, viste allontanarsi dai vetri di un’auto, di un treno o di un tram, bagnate dai riflessi della luce abbacinante del giorno o dalle luminosità artificiali dei lampioni e delle insegne dei paesaggi notturni delle città. E il corpo amato, quello di Monica Cecchi, compagna del regista e sola protagonista di Flòr da Baixa, è, a tratti, anch’esso un’ombra, inafferrabile, una tonalità affettiva che accompagna le note malinconiche di una canzone, mentre sembra percorrere leggera le architetture del tempo ricostruite per lei dallo sguardo innamorato. Illusorio e incantevole fermo del tempo (come il titolo di un altro cortometraggio del regista), che ricorda quasi gli incarnati della pittura di Pierre Bonnard, e qui come diluito nell’acquerello di un istante indefinito. Che si vorrebbe non finisse mai.

In Flòr da Baixa le sequenze si oscurano, per riprendere, un attimo dopo, vita. L’immagine è questo tuo ritornare allo sguardo della memoria. E già Dove sono stato del 2000, primo cortometraggio del regista pesarese, era il racconto-diario di una ricerca stupefatta tra luoghi, corpi e volti, che nel suo cinema si lasciano essere nelle vedute, quasi un ricordo e un omaggio alle vedute animate del cinema, nelle quali si ritrovano la naturalezza di un gesto, lo scuotersi di una testa, l’incedere avveduto di un gatto, una passeggiata in cui si riconosce tutto il sapore del quotidiano, come anche in Un jour à Marseille (2006) e in Giornaliero di città e passanti (2008). L’immagine che vive della luce, dei riflessi, dell’aria, dei rumori, del paesaggio marino, degli scorci delle strade, dei corpi, dei volti e del silenzio della parola.

E poi il vento. Flans te alo. «Il vento entra da un orecchio e esce dall’altro, passando confonde i pensieri» e ancora «questo vento fa brutti scherzi, confonde il tempo, i luoghi», recita la voce di Corso Salani sulle immagini di Dove sono stato, e, con i pensieri, il tempo e i luoghi, anche le immagini. Quell’alito di vento che in Flòr da Baixa, e in altri lavori del regista, accarezza i tessuti e i capelli, alza una gonna, rumoreggia tra le fronde degli alberi, agita i versi di una poesia, scuote le ombre disegnate sulle facciate di vecchi palazzi e quasi toglie il respiro. Quel vento che soffia rianimando il mondo in immagini, facendolo esistere (nel suo senso etimologico) e rendendo gli occhi desiderosi di «ritrovarsi e riconoscersi nello stesso sguardo» (come ha scritto lo stesso regista). E nel finale di Notturno (2009) sarà ancora il vento che, alitando, scoprirà nell’inquadratura un profilo di donna.





Titolo: Flòr da Baixa
Anno: 2006
Durata: 77
Origine: ITALIA
Colore: B/N-C
Genere: DOCUMENTARIO
Specifiche tecniche: HD, DIGI BETA
Produzione: MAURO SANTINI

Regia: Mauro Santini

Attori: Monica Cecchi
Fotografia e montaggio: Mauro Santini


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