altNon è tanto per contarsi – forse meglio sarebbe dire contemplarsi – in quanto italiani se, contravvenendo al fastidio avverso a ogni forma di patriottismo festivaliero, provo a proporre una prospettiva italiana dall'ormai lungo ritorno da Cannes 69. Il fatto è che, lontano dai riflettori della competizione, il cinema italiano che ha praticato la Croisette quest'anno sembra offrire, nel bene e nel male, un quadro un po' insolito rispetto ai turgori autoriali che, sempre nel bene e nel male, ci accompagnano al Festival. Cannes 69 è stato per gli italiani il festival delle incertezze, delle deviazioni dalle calligrafie autoriali che pure amiamo. Tutto ha viaggiato su una proficua fragilità, su una disfunzionalità che coinvolgeva prassi filmiche, definizioni caratteriali, linee narrative, osservazioni e contemplazioni.


Basti pensare a Marco Bellocchio, nostro sommo autore, che in Fai bei sogni sembra quasi voler “fare le facce”, gramellineggiando su tematiche che pure gli appartengono in pieno, senza tuttavia voler incidere di sé un film che probabilmente gli è parso utilizzabile più come spazio per liberarsi un attimo del suo cinema, quasi un oggetto di rappresentanza, che come materia filmica pulsante di se stesso. Due o tre scene pregne della sua più solida potenza poetica (la notte a casa del magnate Athos su tutte) e poi un film che sembra quasi l'occasione per riappacificarsi con la messa in scena, manipolando vissuti che sono fondamentali nel suo immaginario (la famiglia, la madre, la morte, il salto nel vuoto e la sospensione, la determinazione e l'offesa...) senza tuttavia ferirli mai davvero. Attendiamo di rivederlo, chiaramente, ma quel che da Cannes 69 (Quinzaine des Realisateurs) si porta via di Fai bei sogni è l'impressione di un film che organizza la materia organica bellocchiana senza districarla, senza manifestarla nella sua pulsionalità.

L'appaiamento, in Quinzaine, con il Paolo Virzì de La pazza gioia è in questo senso emblematico, perché lo fa dialogare con un film che pure, ma in maniera diversa, risulta sazio della sua sfacciata pienezza: fatti i conti con la visione bohèmienne della sofferenza mentale, come fosse uno stato di euforia degli eccessi emotivi, il film incastra due personaggi contrapposti con maestria da antico forno dei mastri pasticcieri della commedia italiana. Lo so che detto così sembra un po' beffardo..., ma è la verità e di fronte alla verità, quando manifesta sincerità, bisogna sempre abbassare le armi. E allora La pazza gioia funziona proprio nella sua dissimulazione del vero in onore di una strategia dei caratteri che esaltano il progetto filmico: al di là degli eccessi fotografici un po' troppo “color correction” di Vladan Radovic, c'è tutto un insistere di Virzì sulla leggerezza/pesantezza dei corpi (lo svolazzare da farfalla della Bruni Tedeschi, tra foulard e ombrellini, contrapposto alla gravità della Ramazzotti, che si trascina sino al flash back acquatico che la libera, condannandola), sulla meticolosità della scenografia che è quasi una griglia sociale che occupa, con la sua evidenza, la tridimensionalità delle due protagoniste...

altL'uniforme tratteggio quasi bidimensionale di Fiore di Claudio Giovannesi (ancora Quinzaine) è la risposta esatta che viene da un cinema in grado di maneggiare la leggerezza della verità: qui altri stati concentrazionari, quasi a trovare la libertà più intima di un personaggio nella chiusura forzata di una prigione minorile (laddove Virzì spingeva l'occlusione del ricovero forzato nella fuga on the road delle due “pazze”). Giovannesi minimizza, riduce i termini del dramma psicologico e sentimentale senza tuttavia lasciarsi sfuggire un grammo della autenticità della sua protagonista, anzi giocando proprio sulla prassi di una gioventù in posa rispetto a se stessa e ai propri vissuti, per una messa in scena che è la definizione esatta dallo spazio tra le parti in causa (genitori e figli, guardie e prigionieri, innamorati e compagni...). L'equilibrio dinamico delle emozioni, che regge perfettamente la struttura del film, è quello che poi regge anche la struttura esistenziale della protagonista, liberandola nella sua prigionia.

Gioco di prigionia e libertà è anche quello del Pericle il nero di Stefano Mordini (Certain Regard). La strana musicalità di un personaggio che non ha storia: risuona nella testa di Pericle, disgraziato ignoto a se stesso, che transita nel film di Mordini dalle pagine del romanzo di Giuseppe Ferrandino (Adeplhi), passando attraverso la sceneggiatura di Valia Santella e Francesca Marciano (oltreché dello stesso regista) e ricadendo sull'interpretazione a corpo morto di Riccardo Scamarcio. La costanza e la fragilità di un film come Pericle il nero sta proprio nell'ottusità di questo personaggio, nella sua irrisolta indisponibilità ad essere qualcuno sulla scena della sua stessa vita. Manco a dire che è un camorrista vero, dal momento che non ha pistola e agisce a comando di Don Luigi “facendo il culo”, letteralmente, alle persone che vanno raddrizzate. Orfano di padre e anche di una madre della quale ha solo un vago ricordo fotografico, esule in un Belgio raggelato nell'anonimato, Pericle sta al cinema di Mordini con la proterva fragilità di tutti i suoi personaggi, fuggiaschi senza gambe per correre, prodotti di una provincia che disequilibra i destini: non c'è troppo da esaltarsi di fronte al suo cinema, ma va bene anche così, ché poi conta soprattutto il sottotono che garantisce alle sue storie, una ruvidezza visiva annegata nell'uniformità della messa in scena, sempre un po' obliqua, sempre dischiusa a risonanze indistinguibili.

In questo suo nuovo film tutto ricade sulla nullità esasperante del protagonista, che nasce senza coscienza e se la guadagna per tentativi progressivi, per sbagli e aggiustamenti, costretto alla fuga perché condannato a morte dai suoi stessi padroni. Mordini lo tratta e lo raffigura come un bambino troppo cresciuto, alle prese con l'immaginario di una famiglia che non ha, paradigma edipico dissociato e inverso: Don Luigi, vero e proprio padre adottivo, lo utilizza come un pene surrogato, e poco invidiabile, che punisce i disobbedienti; la vecchia Signorinella, che Pericle colpisce per rabbia ed errore, è una sorta di anti-madre che provoca la sua cacciata dall'eden... La fuga verso la Francia gli permetterà di innestare il suo corpo morto nel nucleo familiare surrogato di Anastasia: cassiera di un panificio, madre single di due figli, è l'immagine perfetta di quella madre che lui non ricorda e le si installa in casa, un po' uomo e un po' bambino... Poi tutto un susseguirsi di agguati, vendette giuste e sbagliate, rivelazioni e agnizioni... Il film genera un suo strano calore, una dissociata simpatia per un personaggio che contrasta in se stesso: trascuri i difetti, la distrazione con cui (non) risolve alla fine l'enigma del passato di Pericle, una certa approssimazione nella mancanza di pregnanza delle figure di contorno, compresa Anastasia, che pure rappresenterebbe l'occasione di riscatto. La stessa crudeltà di certi passaggi è lasciata scorrere senza dar troppo peso, come se Mordini volesse soggiacere alla stolida indifferenza del suo protagonista, cercasse di disobbedire a comando al suo stesso film: esattamente come il suo personaggio, insomma.

altFughe, prigionieri, destini vagamente bressoniani accomunano anche Tommaso e Arturo, i due protagonisti de I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin (Semaine de la Critique), film extrauterino, per così dire, smarginato nella esternalità del progetto filmico rispetto alla materia che concretizza. Intendo dire che siamo in presenza di un'opera che procede come per automatismi semantici dai quali si lascia felicemente possedere, invertendo il flusso circolare de L'estate di Giacomo in una scansione franta e introflessa degli eventi. Il film si apre con una fuga doinelliana in doppio corpo, armonia d'intenti in libertà che si schianta contro la morte data gratis, come il peccato originale. Poi c'è la smaterializzazione del mito nella prassi fintodocumentaria (interviste a crudo ai villici di un borgo) che evoca la Creatura, il mostro, il lupo che porta, per l'appunto, la morte. E Ariane, la vergine sacrificale, che si spinge nello spazio uterino della foresta, nel buco che è tana e nascondiglio, in cerca del lupo e ne esce con purezza lustrale, come fosse di nuovo la Stefania di Giacomo, salvo poi invertire ancora una volta tutto... Comodin insomma schematizza, ma lo fa in libertà e il suo film è pura materia di mito spiattellata come gioco di segni, di pulsioni, di emozioni. Un film che incide alla lunga, fidatevi, tanto quanto nell'immediato può lasciare perplessi...

Non incide invece né nell'immediato né sulla tenuta L'ultima spiaggia di Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan (Séances Spéciales), documentario statico e molto impostato che si trascina per più di due ore sull'osservazione di una spiaggia triestina popolata da anziani in residuale abitudine balneare. Il tema del confine che è chiaramente centrale e fondamentale, resta distratto nella meccanica osservativa che non trova nessuna strada effettiva per elaborare il tempo, i tempi, la storia e le storie. Qui sì che siamo in cattive acque...

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