alt«Così pieno e traboccante d’anima e in generale così strutturato e determinato dalla partecipazione affettiva, il cinema risponde a dei bisogni […] quelli di ogni immaginario, di ogni fantasticheria, di ogni magia, di ogni estetica: quelli che la vita pratica non può soddisfare. Bisogno di sfuggire a se stessi, e cioè di perdersi nel mondo esterno, di dimenticare il proprio limite, di meglio partecipare al mondo e cioè in fin dei conti di sfuggire a se stessi per ritrovarsi […] di essere maggiormente se stessi, di elevarsi all’immagine di questo doppio che l’immaginario riflette in mille vite».
(Edgar Morin, 1982)

Denis Villeneuve, regista canadese, apprezzato nei maggiori festival internazionali e pluri-candidato all’Oscar per il miglior film straniero, pare per certi versi aver concentrato la propria recente produzione sulle manifestazioni della duplicità esistenziale e della sua corporeità: antagonisti coincidenti nel medesimo corpo da un lato, alienazioni dalle medesime sembianze dall’altro.

Affidandosi di volta in volta a generi differenti di narrazione, Villeneuve ha congegnato intrecci di scissione introspettiva, auto o eterodiretta, da cui originano lo sdoppiamento per disgiunzione o il raddoppiamento per riproposizione di ruoli e azioni; dunque l’inquietante cortocircuito fenomenologico di ricognizione, quale crudele risvolto della manomissione identitaria. Se nel dramma di ispirazione teatrale Incendies - La donna che canta (2010) e nel thriller di fattura hollywoodiana Prisoners (2013) il regista dialetticamente affronta la questione del fondamentalismo/fanatismo religioso, al fine di disfarsi dell’opposizione manichea tra vittima e carnefice, per mostrare come la medesima cifra umana sia fonte unica e inestricabile di bene e male, nello sci –fi Enemy (del 2013, ma antecedente Prisoners) porta alle estreme conseguenze la propria indagine, risalendo alle ragioni antropologiche che connotano esclusivamente l’uomo e il suo agire (dis)umano, ovvero l’essere nel mondo quale risoluzione complessa di movimenti di identificazione e proiezione di sé e nel sé; per quanto già le sequenze introduttive di Incendies e Prisoners (l’immolazione dell’innocenza alle cause sacre, non tanto della fede, quanto della sopraffazione) parevano tradurre inequivocabilmente l’assunto todoroviano secondo cui «Gli animali uccidono per difendersi, gli uomini per difendersi da pericoli che sovente esistono soltanto nella loro immaginazione o per realizzare progetti concepiti nella loro testa […]. A distinguere gli uomini dagli animali è la capacità di astrazione, le costruzioni mentali» (Todorov 2011), nonché la capacità di immaginare e manipolare le rappresentazioni altrui.

Nel porsi come un riuscito esercizio di stile, Enemy, trasposizione del romanzo L’uomo duplicato del nobel portoghese Josè Saramago, se da un lato interiorizza l’autoriale respiro umanista di Villeneuve nella prospettiva monadica dell’Io – personalità mutevole, dall’altro apre in modo esplicito alla riflessione sullo statuto immaginario del cinema, la cui ontologia fotogenica è già di per sé strettamente connessa ai miti arcaici del doppio e della metamorfosi. Spazio cognitivo, molto più che linguaggio espressivo, in grado di mobilitare il flusso psichico dello spettatore ed elevarlo a Sguardo – Demiurgo, capace di «costruire sulla evidenza dell’immagine un senso ulteriore, di far lievitare i significati, amplificare le risonanze emotive, fino a una soggettività-oggettività estrema o allucinazione» (Trasciani, Morin 2013).

Enemy
circostanzia una megalopoli cupa e straniante, che è già prima duplicazione esteriorizzata, co-protagonista nella sua riproducibilità delle forme, tanto dei complessi di grattacieli granitici come nelle quadrangolarità che li frazionano in porzioni riflettenti, ove l’esterno e l’interno sono messe nell’abisso e la prospettiva è una geometria claustrofobica. Recuperando l’atmosfera sur-realista dell’originale letterario, la regia demanda programmaticamente ai protagonisti (?), Adam Bell/Anthony Saint Claire, il compito di presentare la trama come un ordito paraonirico da sbrogliare, la tela di un ragno, trasfigurazione polimorfica, che diviene insidia, quando non può più fungere da incosciente rifugio.

Se “il caos è un ordine da decifrare”, come sentenzia l’incipit, il volto (prestato da Jake Gyllenhaal) ne è l’incognita liberata dall’immagine cinematografica. Adam Bell è infatti un docente di storia, apatico e monotono nella professione come nell’intimità, che su consiglio di un collega noleggia il Dvd di un vecchio film come svago. La visione prende ad agire come un tarlo nella reminiscenza, nel momento in cui innesta nella mente di Adam la convinzione di aver scorto tra le comparse del film un suo sosia, un pretesto ossessivo che paradossalmente rimandando ad un perfetto sconosciuto lo ricondurrà, presumibilmente non per la prima volta, a tirare le fila della propria vita, come fosse il burattinaio occulto di quelle immagini mentali di matrice sartriana, funzione e struttura essenziale della coscienza; l’immagine, dunque, come superamento dell’atto percettivo in un atto immaginativo, il doppio e l’assenza, che propagando il reale saldano al vissuto il vivibile, impregnano la percezione di ricordo e vi proiettano aspirazioni e paure.

L’ubiquità reciproca che Adam si ritrova a condividere con Anthony è la soddisfazione virtuale di un bisogno cristallizzato, la stabilità sentimentale, che entrambi contemplano e rifuggono nella relazione con le rispettive donne: Hellen, moglie di Anthony, tormentata dai tradimenti del marito; Mary, compagna di Adam, trascurata dall’uomo che ama. Freudianamente è la madre, che rassicura il proprio figlio della sua indiscutibile unicità, come della sua plausibile paranoia, a mescolare le carte. La mente di chi ha partorito chi? Di certo, come insegna Adam ai propri studenti citando Hegel e Marx, gli eventi accadono due volte, la prima come tragedia (l’incontro tra Hellen e Adam), la seconda come farsa (Anthony che inganna Mary).

Lo spettatore attento giungerà anche ben prima dell’epilogo a rintracciare la risoluzione dell’enigma predeterminata dalla sceneggiatura, il protagonista (chiunque sia) ha abdicato dalla realtà a partire non dalla visione del film diegetico, bensì dalla nostra visione, sospensione di incredulità, e si perpetua in essa, assassinando quella maggiorazione soggettiva di sur-realtà divenuta evidentemente di troppo. Una busta strettamente personale, contenente una chiave, è indirizzata ad Anthony, ma finisce nelle mani di Adam, enfatizzando la suspense, una sorta di MacGuffin hitchcockiano, che non è affatto una negligenza non aver citato sin da subito, perché che le serrature d’accesso alle fantasie saldate nel doppio, congiunzione geometrica della più grande alienazione e del più grande bisogno, fossero cambiate, come confida qualcuno, un perturbante coesistente al sogno, era chiaro: il ragno deve tornare a tessere, per sopravvivere.


Bibliografia

Morin E. (1982): Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano.

Todorov T. (2011): Gli altri vivono in noi e noi viviamo in loro, Garzanti, Milano.

Trasciani M., Morin E. (2013): Cinema e Immaginario, Officine Editoriali.





Titolo: Enemy
Anno: 2013
Durata: 90
Origine: CANADA, SPAGNA
Colore: C
Genere: THRILLER
Specifiche tecniche: ARRI ALEXA, SXS PRO, (2K)/HAWK SCOPE, D-CINEMA (1: 2.35)
Produzione: RHOMBUS MEDIA, ROXBURY PICTURES, MICRO_SCOPE, in associazione con MECANISMO FILMS

Regia: Denis  Villeneuve

Attori: Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Isabella Rossellini, Sarah Gadon, Stephen R. Hart, Jane Moffat, Joshua Peace, Tim Post.
Soggetto: tratto dal romanzo L'uomo duplicato di José Saramago
Sceneggiatura: Javier Gullón
Fotografia: Nicolas Bolduc
Musiche: Saunder Jurriaans, Daniel Bensi
Montaggio: Matthew Hannam
Scenografia: Patrice Vermette
Arredamento: Jim Lambie
Costumi: Renée April

Riconoscimenti

Reperibilità


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