Emilia Pérez è il punto finale di quella transizione di genere che Jacques Audiard, spesso associato a storie cupe, durissime e maschili (anche se di mascolinità vacillante, fin dai tempi di Regarde les hommes tomber, nel 1994), ha operato sul suo cinema negli ultimi anni. Prima scorrazzando allegramente nell’America del diciannovesimo secolo in compagnia dei fratelli Sisters, personaggi già dal loro cognome emblematici del tentativo di parodiare e disinnescare il suo stesso cinema e ovviamente un rigido canone di virilità che questo portava con sé, e poi con il successivo Les Olympiades.
Da sempre affascinato dal machisimo e dalla potenza maschile (Un profeta, Dheepan, Tutti i battiti del mio cuore), in quel caso il regista francese aveva mosso un secondo, decisivo, passo verso nuovi territori, scegliendo di scrivere il film assieme a due dei più limpidi talenti femminili del cinema d’oltralpe: Léa Mysius (Roubaix, une lumière) e Céline Sciamma (Ritratto di una donna in fiamme). Raccontando i nuovi codici dell’amore digitale, si tentava la definitiva archiviazione del cinema maschio: ingentilito e ringiovanito, oltre che più variegato nelle lingue e nelle provenienze etniche dei suoi protagonisti. Fluido, tra quei generi (cinema e non solo) prima mai presi in considerazione dal regista.
Adesso, questo Emilia Pérez, raccontando la vicenda di un signore della droga messicano che decide di cambiare sesso e diventare donna, si pone come la rappresentazione plastica (letteralmente) del cambiamento avvenuto progressivamente negli anni nella filmografia di Audiard: cinema d’azione potenzialmente spietato, quello che parla di desaparecidos e cartelli del narcotraffico, trasformato in una commedia musicale. L’operazione, cinematograficamente parlando, è però serissima. La scelta del musical non è solo uno stratagemma ironico, di contrapposizione tra l’oggetto della narrazione e il tono scelto per metterla in scena, ma una direzione stilistica perseguita con grande rigore, coinvolgendo anche questa volta i migliori talenti in circolazione per le musiche e le coreografie. La colonna sonora è composta da Clément Ducol su testi scritti dalla cantante Camille (originariamente in francese e poi tradotti), mentre la coreografia è di Damien Jalet, già collaboratore di Guadagnino e Paul Thomas Anderson, che proprio al cinema Audiard si era ispirato in passato per la sua opera Babel 7.16. Il lavoro con Jalet, fin dalla prima sequenza danzante, cita esplicitamente Golden Eighties di Chantal Akerman (1986), ma si rivela abbastanza camaleontico da arrivare fino al più recente Cabaret di Bob Fosse, in cui già si utilizzava l’elemento musicale in maniera controintuitiva rispetto allo sfondo storico del film.
L’ispirazione di Audiard, in realtà, è un racconto di Boris Razón - Écoute, edito da Le Livre de Poche - in cui si esplicitava una relazione dialettica tra il cambiamento di sesso e la vita interconnessa dell’era online. Razón faceva andare di pari passo l’ampliamento delle possibilità digitali e i progressi della tecnologia medica, che oggi permettono di proiettarci al di fuori di noi stessi, fuori dalle nostre prigioni, che si tratti dei nostri corpi o delle nostre vite. «Viviamo in società sempre più controllate e monitorate, e questi cambiamenti, come il cambio di sesso, sono l’unico modo per uscirne. Dietro questo desiderio di cambiare sesso c’è il desiderio di sfuggire al controllo permanente di ciò che accade», afferma Razón, e non è forse un caso che Emilia Pérez arrivi, nella carriera di Audiard, dopo una storia di relazioni amorose ai tempi delle piattaforme di incontri e dei nuovi lavori legati al sesso nell’era della gig economy. Se il racconto originale però terminava prima dell’operazione chirurgica, immaginata con tutta l’eccitazione cronenberghiana rispetto agli strumenti che incidono e segnano la carne, Audiard racconta quello che avviene dopo, utilizza la transizione della propria protagonista per seppellire il maschio e affermare che «cambiando il proprio corpo si cambia la società».
Cambiare la società, ma anche il cinema che la rappresenta: questo è ciò che Emilia riesce a fare dopo aver passato la prima metà della sua esistenza a massacrare e depredare, e dedicando invece la seconda, quella da donna, a riparare agli errori commessi, fondando un’associazione a sostegno delle famiglie che non hanno più notizie dei loro cari, misteriosamente scomparsi a causa delle attività illecite delle cosche. Questo passaggio - dalla crudeltà del maschio alla sensibilità femminile - è tanto brusco, finanche ridicolo, quanto simbolico. Quello di Audiard non è un film sul transgenderismo, ma un film sulle donne e sulla possibilità di un cinema sempre più femminile. La triade di attrici (Zoe Saldana, Selena Gomez e Karla Sofia Gascòn) rappresenta diverse declinazioni della femminilità e la possibilità di una vera comunità matriarcale. Il cambio del sesso al vertice conduce spesso a risultati positivi e apre alla possibilità del bene, sembra suggerire Audiard.
Parallelamente, il regista francese insiste nel suo tentativo di disancorare il proprio cinema rispetto a contesti geografici definiti, delineando luoghi che non aspirano mai alla realtà ma sono piuttosto la sua proiezione virtuale, fantasiosa. Il Messico di Emilia Pérez, ricostruito interamente in teatri di posa, è cristallizzato nella sua dimensione finzionale come già il tredicesimo arrondissement del precedente film, così simile a quella Hong Kong vista al cinema alla fine degli anni ’90, con le sue imponenti architetture che allo stesso tempo alimentavano la passione amorosa dei suoi protagonisti e ne ostacolavano il definitivo compimento. D’altronde già il narcotrafficante del racconto di Razón era, per ammissione del suo stesso autore, un cugino molto, molto distante di Adan Barrera, sanguinario leader de Il Cartello di Don Winslow. E perciò il Manitas di Audiard non può che essere un’ulteriore sovrascrittura su finzioni già codificate, un prodotto squisitamente narrativo che esplode nella sua potenza shakespeariana, archetipica. In questo, Emilia Pérez è un musical estremamente ingegnoso, che agisce al contrario rispetto ad altri film del genere: la musica e le coreografie non servono ad accentuare fantasie escapiste, ma invece sono tra i pochi elementi che suggeriscono un’aderenza al reale e al contesto scelto per la narrazione, con i gesti, il fraseggio, gli accenti tonici della lingua, la ruvidità delle consonanti, lo spettro armonico delle vocali. Piccoli granelli di sabbia che inceppano il generale «artificiel» huysmansiano, con il suo rigetto dell’uniformità della Natura, secondo la temperie culturale decadente di fin de siècle, intendendo l’opera d’arte non già come documento storico, ma come quintessenza dell’Artificio, nonché come il prodotto di sensazioni sublimate.
Come scrive Razón: «Notre vulgarité est un remède à la démesure du monde, elle englobe, elle subsume. Nous ne sommes plus rien que du désir et nos désirs sont des ordres». Non siamo altro che desiderio e i nostri desideri sono ordini. Lo stesso vale per un regista che pretende, comanda, dirige, trovando nella propria tirannia - volgarità, accusano alcuni - un antidoto alla dismisura del mondo.