I re magi vagano per il deserto alla ricerca del Salvatore. Non c'è una cometa che li guidi, solo un angelo ogni tanto appare. Durante il riposo, per far passare il tempo, si raccontano quel che hanno sognato. Lungo il cammino si accorgono di aver sbagliato strada, tornano indietro, girano attorno a una montagna, si accovacciano su un dirupo. Forse, sembra suggerire uno dei tre, si potrebbe andare sulle nuvole e farsi trasportar da loro.
Già in Honor de cavalleria {2006} Albert Serra aveva messo in scena la fatica di essere personaggio: lì il Chisciotte impiegava un quarto d'ora solo per vestirsi e, una volta assunta una forma più o meno somigliante con la sua raffigurazione classica (con tanto di corona d'alloro), iniziava la peregrinazione in un paesaggio brullo, senza alcuna traccia di antropizzazione; come unico passatempo non aveva altro che tormentare Sancho con le sue divagazioni e i suoi fantasmi. Tutto ciò che era storia restava fuori dall'immagine: le avventure del Chisciotte rimanevano relegate nelle cesure del montaggio, nel nero fra un fotogramma e l'altro, mentre ad essere rappresentate erano le pause mai scritte della narrazione, gli spazi bianchi tra le righe del romanzo di Cervantes.
Anche in El cant dels ocells i magi sono spossati dal loro essere personaggi, i simboli visuali della loro regalità (i mantelli d'ermellino e le corone) pesano sui loro corpi, sono fardelli da trascinare su un paesaggio desertico, ventoso: sono corpi abbandonati da Dio alla ricerca del divino. Eppure, come avveniva per il Chisciotte, la loro gloria traspare, più che dai simboli e dalla missione ricevuta, dall'inazione, dall'essere liberi dal "dover fare" ma senza per questo dover soccombere alla contingenza, all'inedia, come se solo in una dimensione senza storia e senza luogo ai personaggi sia permesso esistere.
È proprio attraverso il "senza", la continua privazione, che Albert Serra riesce a giungere a un'immagine pura, senza, appunto, la presunzione di voler dire qualcosa che vada al di là di ciò che si vede. Rispetto a Honor de cavalleria, il lavoro di scarnificazione sembra in El cant dels ocells arrivato a un grado più profondo, oltre l'osso e il midollo dell'immagine, fino ad assottigliare il vedere a una pura superficie: via il colore, in luogo di una bitonalità cromatica fortemente polarizzata (il nero del buio della notte o della cavità di una montagna come sfondo impenetrabile dinanzi al quale i personaggi si arrestano; il bianco del deserto, del cielo o del riflesso dell'acqua oltre il quale è l'occhio ad essere ricacciato) ma soprattutto via la handycam1 in modo tale da ottenere movimenti più lineari anche se più radi. Prevale infatti la camera fissa, posta per lo più a distanza dai personaggi, in modo tale che l'occhio possa contenere più spazio in cui farli vagare, magari in un'immagine tagliata in due da una sfumatura di grigio che sta lì a segnare l'orizzonte fra uno spazio bianco e l’altro, fra il deserto in terra senza dio riflesso nel cielo deserto precluso all'uomo.
Albert Serra sembra talmente integralista e rigoroso nelle privazioni inflitte al suo cinema da costringersi quasi a dover mettere in scena sempre lo stesso film (e lo stesso si potrebbe dire dei suoi contemporanei più prossimi, in quella che si potrebbe definire una sorta di variante esistenziale del genere del desert movie: Gerry {2002} di Gus Van Sant e Twentynine palms {2003} di Dumont su tutti; tra gli italiani Ciprì e Maresco quando ancora giravano insieme, ma pure Manuli2, il cui cinema verboso e ipercinetico è perfettamente simmetrico a quello di Serra: tante parole per dire il nulla, movimento estremo per giungere alla quiete): come i suoi personaggi, sceglie di danzare in catene, fino all'abbandono di ogni orpello, ammiccamento o cascame intellettualistico, fino a giungere al vuoto della visione estatica di un cinema capace di cancellare se stesso.
Note
1. Per Honor de cavalleria Albert Serra disponeva di minor fondi e filmava tutto in esterni usando una economica HD, con l’inevitabile condizione di dover girare all'alba e al tramonto, ovvero nelle ore in cui la luce arriva più "tagliata" sul soggetto: il film ha il pregio di apparire così più malinconico e "crepuscolare", ma anche con poche variazioni ottiche e quindi più piatto; il magnifico bianco e nero di sottrazione di El cant del ocells è quindi un lusso che ci si può concedere solo grazie a una ottima e più costosa pellicola Kodak.
2. Cfr. a riguardo il saggio di Gemma Adesso Ballo dunque sono in Il film in cui nuoto è una febbre.
Titolo: El cant dels ocells
Anno: 2008
Durata: 98
Origine: SPAGNA
Colore: B/N
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM (1:1.85)
Produzione: ANDERGRAUN FILMS, EDDIE SAETA S.A., TELEVISIÓ DE CATALUNYA (TV3)
Regia: Albert Serra
Attori: Lluís Carbó, Lluís Serrat Batlle, Lluís Serrat Masanellas (magi); Montse Triola (Maria); Mark Peranson (Giuseppe); Victòria Aragonés (angelo)
Sceneggiatura: Albert Serra
Fotografia: Neus Ollé
Musiche: Paul Casals
Montaggio: Àngel Martín
Scenografia: Jimmy Girmferrer
Costumi: Jimmy Gimferrer, Maria Colomé
Riconoscimenti
Reperibile per 30 giorni su:
http://www.youtube.com/watch?v=pGO4lDxhCGM