Bi-mong.DreamJin sogna avvenimenti che poi scopre essere divenuti reali, verificatisi nella maniera e nei luoghi prefigurati nel sonno. Solo che, nella realtà, protagonista di questi accadimenti (angosciosi, dolorosi, delittuosi) non è lui bensì una ragazza, Ran, sonnanbula, che compie le azioni al posto suo, mentre lui le evoca in sogno. I due, sconosciuti l'uno all'altra, sono accomunati dall'essere entrambi reduci da relazioni sentimentali finite poco tempo prima.



«Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore corporale, di entusiasmo, di disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di quasi ubbriachezza, e furore,  ec.; scopre delle verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire; e che annunziate da lui non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perché lo spirito umano manca tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e comprenderle come verità, e perch'esso non può universalmente fare in un punto tutta la strada che ha fatto quel pensatore […]» (Leopardi, Zibaldone di Pensieri, 1975).

«Tutto ciò che è finito, tutto ciò che è ultimo, desta sempre naturalmente nell'uomo un sentimento di dolore, e di malinconia. Nel tempo stesso eccita un sentimento piacevole, e piacevole nel medesimo dolore, e ciò a causa dell'infinità dell'idea che si contiene in queste parole finito, ultimo ec., le quali però sono di lor natura, e saranno sempre poeticissime, per usuali e volgari che sieno, in qualunque lingua e stile» (Ibid., 2251).


La tensione verso il metafisico (cui carne non è affatto gnostica bensì articolata, architettata con materiali contingenti), verso l'evasivo/visivo presente sin dall'inizio nel cinema di Kim Ki-duk, sia pure entro le sconnessioni, le incertezze di una regia in fieri, per emergere poi allo sguardo del pubblico europeo in veste di allegoria sessuale con L'Isola, si conferma e anzi arriva a riepilogarsi nello “sfortunato” (ma esteticamente e teoricamente fertile) Dream, girato prima della confessione straziante e allucinata di Arirang, che del resto prendeva le mosse proprio dall'incidente accaduto sul set del film precedente, quando l'attrice Lee Na-yeong (Ran) aveva rischiato di restare impiccata, nel tentativo di rappresentazione quanto più realistica di un suicidio. Intendendo ora per realismo la realtà dell'estremo dolore (anzi la necessità di incanalarlo nel cinema perchè proliferi) entro cui è inquadrato il soggetto come cumulo di fragilità, angosce, mancanze testate sulla pelle, sul corpo, verso s-figurazioni dal respiro palingenetico (come in Time), comunque sempre poetiche, proprio nel senso di formulazioni linguistiche, immaginifiche.

È questa la metafisica prospettata da Kim Ki-duk, dolorosamente carnea nella concreta realtà della creazione, processo più che ingiunzione (cui sintesi può essere la scena in cui Jin incide con lo scalpello degli ideogrammi sul suo corpo, così eletto a materia plasmabile del linguaggio, ad oltranza), dimensione altra del linguaggio delle immagini (alogiche, disgiunte narrativamente, fervide in sé) in cui si perdevano Han-Ki e Yun-Tae in Bad Guy, come (ri)composti (finalmente se stessi, cioè sagome, fantasmi) mediante i frammenti di una foto, sepolti sotto la sabbia, e nella quale (dimensione linguistica) sopravvivevano i protagonisti di Ferro 3 e muoiono ora (?) i due amanti di Dream. Approdo (immaginale) di un'evasione, tanto più commovente e lirica, quanto più la detenzione era dura, coercitiva fino all'estremo, con lo squallido, seriale minimalismo delle pareti bianche delle prigioni (da Soffio a Ferro 3, fino appunto a Dream). Figurazione di una contenzione che è prima di tutto morale, direi ontologica, intollerabile patimento che quindi è umano (corporale) e allo stesso tempo troppo umano, trascendente nella misura della sua inalienabilità, inscritta nella mancanza, nella lontananza lancinante, nella perdita, che definiscono un terreno  – magari l'alta sterpaglia in cui i quattro protagonisti si confrontano, si guardano sgomenti, si comprendono, provano quella pietà che, nella filmografia di Kim Ki-duk, è prossima a venire, nominalmente – in cui le sagome, i corpi recitano come galleggiando senza appiglio tra isole di senso – venuta meno la linea del racconto –, diventano intercambiabili, tendono cioè a perdere la loro connotazione, solo invase dal dolore generale, universale, che secondo la psicanalista-vestale (consultata dopo il primo incubo), è memoria, sogno, è Nascita, creazione, sempre presente.

La violenza, il delitto e la conseguente punizione sono le fasi (naturali) di un'umanità marchiata dal supplizio, dalla solitudine: quel calvario a cui allude l'autoflaggellazione di Jin, sanguinante dal capo e dai malleoli, in ogni caso allusione alla cristologia figurativa propria della storia dell'arte e magari di una qualche memoria michelangiolesca da cui s'arriva naturalmente alla pietà di un regista proveniente dalla pittura, intesa quale virtualità, enorme immaginario di una realizzazione del sè che non può che passare attraverso codici e coreografie. Ma è una pietà che sfugge alla gnosi e si alimenta invece della contraddizione; elegge l'ambiguità morale ad etica e, dicevo, estetica, determinando ogni volta scenari in cui la coartazione e la brutalità sono contigue alla passione (di cui sembrano innesco) e delineano la strada della riformulazione, in cui si ritrovano sempre a respirare questi personaggi fino a che, per via della loro pelle martoriata (dalla coscienza del finito, dell'ultimo) s'innalzano fuori dal mondo, cristallizzandosi in allegoria prima, nel finale dell'Isola – variazione (corporea) sul tema (cosmologico) di Solaris – con la centralità dei sessi elevati a sopra-mondo; poi in vera e propria vivente sineddoche, lì dove tende a scomparire la distanza tra significante (alogico) e referente, e tutto appare, da un certo punto in poi, legittimato dal palinsesto (dissesto) del sopra-mondo linguistico, filmato (laddove la liturgia dell'incisione, dell'inscrizione di ideogrammi, presente in molti dei film di Kim Ki-duk, non è affatto casuale) in cui si contempla la compresenza, l'abbraccio (sia pure in/dalla detenzione), la trasparenza, evanescenza (di personaggio) di Ferro 3, la trasformazione in farfalla (Dream), che allora, nell'ecosistema dell'immagine ir-reale, fattasi carne di cinema, può evadere e ricongiungersi al suo compagno di sogni.

Proprio la scena cruciale dell'impiccagione (che richiama l'epilogo di Soffio) con-fonde i piani, riverberandosi poi, il cinema (la finzione), sulla vita del regista traumatizzato dall'incidente e incapace, dopo Dream, di girare altri film (se non quello che racconta dell'impossibilità della finzione, Arirang), eppure consapevole di non poter sopravvivere che nelle possibilità (finzionali) dell'opera, dove Kim Ki-duk è personaggio e perciò tanto più vero e disperato, come lo è il sogno dell'ultimo morto (Jin), incapace di non sognare un'impiccagione e una metamorfosi (in sequenze, tipiche e topiche per il regista coreano, in cui la corporeità, resistendo, passa a una brunitura, a una nitidezza quasi rituale e sospesa, metafisica appunto) e ancora un volo, dal bianco (universale) della cella a quello di un lago ghiacciato, e un ultimo (?) intrecciarsi di dita, limpido e Vero, nella realtà della Poesia apparita.





Titolo originale: Bi-mong
Anno: 2008
Durata: 95
Origine: COREA DEL SUD, GIAPPONE
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: KIM KI-DUK FILM, SPONGE, STYLE JAM

Regia
: Kim Ki-duk

Attori: Jô Odagiri (Jin); Na-yeong Lee (Ran); Mi-hie Jang (Doctor); Tae-hyeon Kim (Ran's ex-lover); Ji-a Park (Jin's ex-lover)
Sceneggiatura: Kim Ki-duk
Fotografia: Kim Gi-tae
Montaggio: Kim Ki-duk
Musica originale: Philip Sheppard
Effetti video: Kang Chang-bae

Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=gGqaiaN4nvg

Tags: