delta

Un ragazzo torna a casa, in un non-luogo isolato dal resto del mondo, sul Delta del Danubio. Scopre di non avere più una casa, ma una sorella di cui ignorava l’esistenza. Insieme decidono di costruire un nuovo rifugio, sull’acqua, lontano dal centro. Gli abitanti del villaggio non riescono ad accettare la loro “innaturale” relazione…

 

 

«Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità del movimento, tutto si disperde e si ricompone di nuovo, tutto viene e va.»(Eraclito, fr. 91)

Il movimento del Delta del Danubio è di una velocità molecolare appena percepibile da una macchina che non ha bisogno di rincorrere il flusso: le basta alternare la fissità dei campi lunghi a carrellate modulate sul ritmo lento di scorci senza storia, bastano le rughe dei volti induriti degli abitanti di nessun luogo a segnare una durata fuori dal tempo. Per la velocità di questo lento movimento, la percezione dello scorrere è impressa dalla luce che altera l’atmosfera immobile della superficie dell’acqua e dalle nuvole che segnano la vicenda dell’arrivo e della partenza, sicché nessuna cosa permane nello stesso stato.
La porzione di paesaggio che non è ripresa dalla macchina resta perfettamente presente nella percezione costante di un tutto che corrisponde all’Aperto e rinvia ad un tempo non misurabile e perfettamente aderente a quello dello spirito: « cosicché il tutto è l’Aperto, e rinvia al tempo e anche allo spirito, più che alla materia e allo spazio. Quale che sia il loro rapporto, non si dovrà dunque confondere il prolungamento degli insiemi gli uni negli altri con l’apertura del tutto che passa in ciascuno. Un sistema chiuso non è mai assolutamente chiuso; ma da un lato è collegato nello spazio ad altri sistemi con un filo più o meno “tenue”, dall’altro è integrato o reintegrato a un tutto che gli trasmette una durata lungo tale filo» (Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1). È lo spirito della Natura che impone l’oggettività delle inquadrature in cui i soggetti reificati non imprimono nessuna traccia notevole al caos imploso e quieto del paesaggio: gli uomini si propongono non come alternativa alla natura, ma come tentativo contro-natura di fissare lo scorrimento attraverso assi e tronchi che hanno arrestato la loro crescita. Così la casa resta un luogo abortito di un ritorno mai compiuto, sempre ciò che conta è andare, seguendo la presenza inquietante e fuori campo di un altro corso, oltre lo spazio e il tempo omogenei.

Mundruczó sembra non concepire lo spazio come qualcosa di unitario, piuttosto come una somma calibrata di parti diverse; la sua è una “prospettiva luminosa” che fa dell’inquadratura uno spazio pittorico il cui punto di fuga è sempre immanente. Egli utilizza la scientificità geometrica della prospettiva come un pittore rinascimentale che voglia rappresentare uno spazio tridimensionale, eppure l’elemento (nell’) infinito non è né continuo né omogeneo: dietro il primo piano si elimina programmaticamente il piano ideale dell’immagine, l’uomo non è più collocato nel punto centrale dell’universo, ma posto al margine, sulla soglia che marca la lontananza tra la terra e il mare. Su quel limite irrappresentabile e fuori di scena (o-sceno) si consumano spesso le azioni drammatiche o si delega il secondo piano a luogo di riflessione metacinematografica speculare al primo. Esattamente come ne La flagellazione di Cristo di Piero della Francesca o nell’ Annunciazione del Beato Angelico, i personaggi si dispongono secondo una regia che segna uno scarto netto tra i primi piani, spesso di importanza secondaria, e i campi lunghi e lunghissimi, in cui si “riflette” l’azione senza concetto. L’immanenza si dà nella forma di un significante discreto che mostra ciò che si deve tacere, perché non se ne può parlare. Non a caso nel film i dialoghi sono quasi assenti e le poche battute che i personaggi si scambiano non aggiungono niente alle immagini; dialoghi e inquadrature procedono indipendentemente, abolito qualsiasi tipo di riferimento didascalico, il significato è affidato al corso muto del divenire.

Delta è un interspazio, ma è anche la quarta lettera di un alfabeto senza più linguaggio: in ebraico antico dāleth significa “porta”, segna il limite di un varco, la fine di spazi incomunicabili che fa di ciascun luogo l’estremità radicale del successivo. Il limite della terra e delle acque è il luogo di un dramma dal quale non è desumibile alcun messaggio edificante; a differenza delle tragedie greche o delle parabole cristologiche, qui non vi è insegnamento che valga oltre quello della terribilità della natura e della ineluttabilità del passaggio: oltre quel varco, superata la porta, è l’Aperto nella sua semplice evidenza. Vivere secondo natura significa ignorare le convenzioni sociali che vietano la libertà del movimento, scardinare la sicurezza dell’immobile comporta necessariamente una terribile colpa: quella della denuncia di una anti-natura impazzita che punisce ciò che non può comprendere.
In quello sbarramento si consuma dunque uno scontro mortale tra terra e acqua; l’azione punitiva  del giudizio convenzionale che ha riconosciuto nell’essere estremo una contro-natura non può essere in alcun modo evitato, il sacrificio del corpo colpevole deve avvenire in quella casa sull’acqua e deve essere consumato per poter ricominciare ignorando il cambiamento. Il divenire non è sopportabile, può essere percepito solo dall’oggettività del piano-“coscienza” dello scorrimento. Come spiega Deleuze, il piano è il movimento stesso perché attraverso di esso è assicurata la conversione, la circolazione: «il piano, cioè la coscienza, traccia un movimento che fa sì che le cose tra le quali si stabilisce non cessano di riunirsi in un tutto, e il tutto, non cessa di dividersi tra le cose (il Dividuale)».

Un ospite (Félix Lajkó) arriva senza preavviso per vivere in un luogo che forse un tempo gli è appartenuto, porta con sé un’incognita che non si conoscerà; quello che conta non è il motivo del suo viaggio e nemmeno il suo passato, conta solo il ritorno a casa. Un ospite che è già un “teorema” insolubile, con il volto segnato da un tragico destino evangelico: figliol prodigo in cerca della madre, si ricongiungerà alla sorella di cui ignorava l’esistenza, per riscrivere la storia di Edipo e quella di Abele e Caino, capovolgendo le sorti del mito e quelle dell’uomo. Dall’unione dei due fratelli in un Eden ritrovato potrebbe nascere una nuova progenie non più in lotta con la natura ma appartenente ad essa. Tuttavia il corso della storia segue un ordine immodificabile che esige la crocifissione dell’estraneo condannatosi ad una autoespulsione che è rifiuto di obbedienza a delle regole tacite di convivenza.
Tutto avviene sotto il sole, senza riparo; lo sguardo della coscienza può solo allontanarsi e allungare il piano, sbiadire l’immagine. Insostenibile è ciò che manca: la presenza del padre, forse morto - come dio. Un’assenza da vendicare attraverso una nuova presenza, giacché tutto ciò che è sotto il sole sempre si ripete e il divenire urta improvvisamente con l’urgenza dell’inevitabile.
Come nel Teorema pasoliniano, l’ospite è sempre portatore del sacro per il suo semplice essere fuori dalla vita che si svolge a terra; lì come in Delta, il sesso è rituale finché resta estraneo ai canoni di ordine e di possesso, e diventa osceno e violento quando è usato come strumento punitivo e simbolico di esercizio del potere. Il pallore irreale di lei (Orsi Tóth) riflette la purezza di una onnipotenza erotica inconsapevole: la sua colpa è nell’essere donna-figlia-sorella, marchiata intimamente dalla condanna della disobbedienza all’ordine, macchiata di sangue e sperma, costretta ad ingoiare l’anguria frutto del peccato ed emblema di un martirio inevitabile: il suo biancore è quello del Cristo morto del Mantegna che espone lo scandalo della sua carne lacerata in un primo piano inaudito per la storia di tutta l’arte e del cinema a venire.

La sequenza dell’ “ultima cena” in cui il pane viene spezzato senza riguardo e ingurgitato in una tragica eucarestia cannibalistica lascia presagire la violenza dell’epilogo. Eppure ciò che resta del sacrificio è la necessità dello scorrimento - non speranza di resurrezione, ma legge naturale del ritorno per cui nessun sacrificio è definitivamente consumato perché, nel movimento incessante delle cose, tutte le cose tornano a seguire il fiume secondo il suo
(di-)verso:
«Tutti i fiumi vanno al mare e il mare lui non ne è pieno. A un luogo cui i fiumi vanno, là essi tornano a andare». (KOHÈLET, 1,7).

 


Titolo: Delta
Anno
: 2008
Durata
: 92
Origine
: UNGHERIA, GERMANIA
Colore
: CGenere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche
: 35 MM
Produzione
: PROTON CINEMA, ESSENTIAL FILMPRODUKTION, FILMPARTNERS

Regia: Kornél Mundruczó

Attori
: Félix Lajkó (Mihail); Orsolya Tóth (Fauna); Lili Monori (Madre); Sándor Gáspár (Amante della madre)
Sceneggiatura
: Yvette Bíró; Kornél Mundruczó
Fotografia
: Mátyás Erdély
Musiche
: Félix Lajkó
Montaggio
: Jancsó Dávid
Scenografia
: Márton Ágh
Costumi
: János Breckl

 

Riconoscimenti

Reperibilità

 

http://www.youtube.com/watch?v=XUrL5osnFeo


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