Soprattutto a partire da The Neon Demon, il neon, la luce al neon, sono diventati nell'economia del cinema di Refn un motivo centrale, una specie di egida sotto cui il suo cinema si muove.

Non più la luce del sole, la luce naturale - quella, sia pure smorta e crepuscolare, annichilita, che era il fondamento del Dogma - ma quella artificiale, che sembra essere l'impulso elettrico che tiene in vita i personaggi di Copenhagen Cowboy, soprattutto la protagonista, Miu, questa Frankenstein impassibile (rinata da una scarica di corrente elettrica), muta, vivente tra la vita e la morte, in quel limine che è il sogno, dimensione costellata di neon colorati, al limite, intermittenti, stroboscopici come nel sesto episodio, al culmine della lotta tra Miu e Chang.

L'impulso elettrico poi si fa - sul piano sonoro - elettronica (ci sono, tra gli autori delle musiche, Cliff Martinez e Julian Winding autore della Demon Dance in The Neon Demon), così se il neon è il sangue dell'immagine di Refn, l'elettronica - con punte di techno, appunto - è il respiro ora sincopato, ora perfettamente ritmato (in quattro quarti) di questo organismo audio-video appariscente, narcisistico, esibizionista già a partire dalla firma NWR come fosse un capo firmato, un cappotto squamato di lustrini, di tessere traslucide. Certo c'è una gratificazione immediata per lo sguardo, per i sensi, ma il rischio è di un'evanescenza del segno a medio e lungo termine, della perdita di senso nel gioco infantile, feticistico, stilistico. Ma se ciò accade in alcuni tratti - ad esempio nell'inizio del quinto episodio, per quanto esaltante - poi ecco che il segno cinematografico prende una sua specifica profondità, una sua complessità, come nel caso dell'uomo-maiale che - tra patologia e sortilegio - coita e grufola pur mantenendo sembianze laconicamente, svagatamente umane. Cuori, maiali, sessi si diversificano nel transito del tropo, tra metonimie, similitudini e metafore, sotto la cortina dei neon, il firmamento neonitico.  

L'anti-dogma di Refn è allora neonismo, come scrivevo anni fa a proposito di The Neon Demon (che rappresenta una vera e propria accelerazione neonica rispetto a film come Drive), sfoggio di semi-viventi, manichini acconciati, stilizzati anche in virtù di un certo citazionismo (la tuta di Miu, flessuosa combattente, non può non richiamare quella di Black Mamba; e poi c'è Chang che ha rapito sua figlia, sottraendola a Madre Hulda, ecc.): un'anti-natura che forse deve qualcosa a un autore come Raymond Roussel (o comunque a quella maniera post-simbolista di trattare il linguaggio e farne le fondamenta di dimensioni totalmente artificiali) e che si solidifica sul piano visuale in un senso pseudo-lynchiano, laddove alla fluidità, alla totale commutabilità, intercambiabilità dei segni lynchiani dis-ordinati in sogni profondi e dalle molte dimensioni, si sostituisce in Copenhagen Cowboy una semplificazione dell'onirico, un onirico "superficiale", in due dimensioni, come in una favola post-moderna. Resta il fascino del neon, tra evocazioni crepuscolari, costellate da cieche falene, e altre futuriste - nel sogno dell'artificiale -, barocche, tutt'uno con le plastiche, i latex, le lacche.

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