È l’estate a dominare in Cocoon, seconda opera della regista tedesca Leonie Krippendorff, presentata in anteprima mondiale, poco prima dei vari lockdown planetari, nella sezione Generation della Berlinale 2020 e riproposta in questi giorni dal Bari International Gender Festival (BiG, in streaming su Mymovies dal 4 al 12 dicembre).

Una stagione che non è certo solo riconducibile all’ambientazione dell’opera (l’afosissima estate berlinese del 2018, in cui si raggiunse la temperatura record di 38 gradi a luglio), ma aleggia, prende forma nei toni caldi della fotografia, nei corpi cocenti, eccitati, febbricitanti, nelle storie d’amore fugaci, effimere, estive appunto, degli adolescenti protagonisti di questo coming-of-age urbano.

Chiusa nel bozzolo fin troppo programmatico e didascalico del titolo, che però non è solo banale fucina di farfalle ma anche e soprattutto rifugio dalle paure, guscio ovattato e tuttavia soffocante, potenzialmente abortivo, di indispensabili mutazioni, da buon bruco quale ha imparato ad essere, diventandone delicata allevatrice casalinga, la quattordicenne Nora inizia strisciando timidamente nella scia lasciata dalla sorella più grande Jule e delle amiche di lei. Finché scoprendo l’amore per Romy – l’unica ragazza in grado di capire e amare le sue trasformazioni e umori, persino secrezioni, puberali – non si rende conto che il suo percorso esistenziale è suo e basta, diverso, magnificamente diverso, da quello che aveva creduto unico e ideale nell’osservare sorella e amiche.

In piena aderenza ai propositi della cornice festivaliera con cui è stata presentata al pubblico (la sezione Generation è incentrata su storie significative, in grado di essere “vicine” ai loro giovani protagonisti sia sul piano della narrazione che del linguaggio audiovisivo), Krippendorff (inserita da Variety nella lista 2020 degli autori europei da tenere d’occhio) sceglie con cura cosa mostrare del complesso mondo degli adolescenti, tenendo sempre al centro i corpi, i volti, le sofferenze (anche fisiche, mestruali) dei suoi personaggi, a cui restituisce pienezza e verità.

Ne emerge un ritratto brulicante di una precisa micro-comunità di teen – quella che gravita nella cosiddetta Kotti, la zona attorno a Kottbusser Tor, nel vivace quartiere di Kreuzberg, centro della vita notturna berlinese – aperta, multietnica e punk (un tempo Kreuzberg rappresentava il luogo d’elezione per la scena punk rock della capitale tedesca), che è allo stesso tempo particolare e universale, contemporanea (soprattutto nell’utilizzo dei dispositivi e dei social, richiamata dall’utilizzo intermittente del formato verticale tipico degli smartphone e di Instagram) e senza tempo (le leggi del gruppo/tribù, le difficoltà relazionali, le disfunzioni famigliari, i rapporti amorosi).

Cosi le dinamiche famigliari (la madre alcolizzata e assente di Nora e Jule, la tragedia che ha segnato Romy, i divorzi e tradimenti a cui si allude continuamente) si mescolano a quelle sociali (la coesistenza tra i tedeschi e i figli degli immigrati turchi, molto presenti a Kreuzberg, lo spaccio e il consumo di droga, un certo clima festaiolo e gangsta-rap), senza però togliere spazio al racconto personale, ma anzi sostenendolo, alimentandolo, inquadrandolo. E il cinema arriva esattamente a potenziare questo inquadramento, questo tentativo di incorniciare il mondo, un mondo, la vita, senza tradirne il turbinoso, emozionante fluire.

A decretare il buon esito dell’operazione non è, in questo caso, una forte originalità dello sguardo (c’è poco, in Cocoon, di inedito, di non visto), quanto la vicinanza di quello sguardo all’oggetto del racconto, la sua partecipazione emotiva e formale ai corpi, al loro dibattersi per la libertà e il suo proteiforme godimento, nuotando nudi nel cuore della notte o cercando, incessantemente, voracemente, un bacio tanto implorato.

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