Maggio 2001. Al Dos Palmas Resort sull'isola Palawan nelle Filippine, sbarca nella notte un gruppo di uomini armati che rapisce tutti i presenti, locali e stranieri, a nome di Osama Bin Laden. Inizia così una lunga "cattività", per ostaggi e rapitori, in continuo movimento nella giungla, che durerà circa 16 mesi.
Il giorno in cui a scuola spiegarono "il carrello di Kapò", Brillante Mendoza o era assente o contestava l'insegnante: ce lo immaginiamo mentre confuta "la vecchia" etica dello sguardo e sostiene la necessità di trovare un nuovo, e personale, modo di mettere in scena il dolore. Guardando al suo cinema, infatti, sembra riduttivo, quanto anacronistico, utilizzare metri di giudizio di stampo classico.
Fattosi le ossa in pubblicità, Mendoza nei suoi film più noti, Lola e Kinatay, racconta piccole storie con piccoli mezzi, dove vittime e carnefici si specchiano le une negli altri. E lo fa con un nuovo tipo di sguardo, poco rassicurante e per niente catartico in cui l'etica (classicamente intesa) lascia il posto a un "realismo finzionale": semplicemente mostra.
Nel suo ultimo film Captive, presentato in concorso all'ultima Berlinale, questa caratteristica diventa più facilmente individuabile. A differenza dei lavori precedenti, Mendoza può qui contare su un budget più alto e un vero cast (Isabelle Huppert su tutti, che si è affidata a lui dopo averlo premiato a Cannes 2009 per Kinatay), ma non cambia linguaggio. Semmai lo adatta.
La vicenda narrata, che prende spunto da una storia vera, viene raccontata attraverso i codici del documentario, ma su un set che potremmo definire esperienziale. Troupe e cast hanno ripercorso un itinerario simile a quello usato dai veri rapitori del Dos Palmas, seguendo un canovaccio di realtà, ma apparentemente senza sceneggiatura. Lo spettatore non può fare altro che "imparare" ciò che è successo, senza empatizzare con le vittime, senza odiare i rapitori. Ci sono uomini e donne che forzatamente si ritrovano a condividere un lungo e doloroso tratto di vita in comune e, naturalmente, l'unica cosa a cui pensano è sopravvivere.
Per questo il mostrabile diventa accettabilmente crudo o forzato o disarticolato; perché naturalistico. In Captive primi piani di bambini nascenti o dettagli ravvicinati di teste mozzate non sono abili trucchi per forzare l'emozione, ma semplicemente una soggettiva emozionale della vita e della morte, non a caso continuamente affiancati alla natura circostante.
Se da una parte c'è la ricostruzione immaginata da Mendoza, dall'altra c'è la vicenda reale, intrecciata a doppio filo all'11 settembre. I rapitori fanno capo al gruppo terroristico (nell'occidentale accezione del termine) denominato Abu Sayyaf, che prende in ostaggio gli ospiti del lussuoso albergo in nome di Osama Bin Laden nel maggio 2011 e lo fa per finanziarsi. Qualunque altro cineasta (occidentale) avrebbe affrontato il tema con sovrabbondanza di retorica, pathos, drammaticità politica o minimalismo radical chic.
Mendoza fa il contrario: entra a gamba tesa nella vicenda, presenta i personaggi in maniera asettica, e li lascia vivere in una parentesi temporale e spaziale (i sovratitoli forniscono date e luoghi) all'interno di una parentesi (in)naturale, contrappuntata dall'occhio divino della macchina da presa. Concepito il rapimento, lo sguardo si libra verso l'alto lasciando gli uomini soli nell'oceano. Concepito un nuovo modo di guardare il mondo, anche la prospettiva torna terrena. In mezzo, in una cattività forzata, incastonati in una natura mossa dall'istinto di sopravvivenza del mondo animale (e umano), tutto è cambiato: i rapitori, i rapiti, i governi, il mondo.
In questo si compie quello che abbiamo definito "realismo finzionale", dove la messa in scena si trasforma in un documentario sullo stato d'animo indefinito e sospeso tra occidente e oriente, cristianesimo e islam, ordinario ed eccezionale, restando naturalisticamente (ir)risolto. Captive è indubbiamente spiazzante: abituati a un linguaggio più netto e definito, è difficile comprendere la direzione percorsa da Mendoza. Eppure lui, nella sua giungla, sembra aver trovato un nuovo e personale modo di mettere in scena il dolore. Forse l’unico ad adattarsi al mutevole mondo post 11 settembre.
Titolo: Captive
Anno: 2011
Durata: 120
Origine: FILIPPINE, FRANCIA, GERMANIA, GRAN BRETAGNA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM, DCP
Produzione: DIDIER COSTET, BRILLANTE MENDOZA PER SWIFT PRODUCTIONS, ARTE FRANCE CINÉMA, CENTERSTAGE PRODUCTIONS, B.A. PRODUKTION, STUDIO EIGHT PRODUCTIONS
Regia: Brillante Mendoza
Attori: Isabelle Huppert (Thérèse Bourgoine); Katherine Mulville (Sophie Bernstein); Marc Zanetta (John Bernstein); Rustica Carpio (Soledad Carpio); Timothy Mabalot (Ahmed); Maria Isabel Lopez (Marianne Agudo Pineda); Mercedes Cabral; Raymond Bagatsing; Kristoffer King; Sid Lucero; Ronnie Lazaro; Mon Confiado; Evelyn Vargas; Baron Geisler; Bernard Palanca; Madeleine Nicolas; Chanel Latorre; Catherine Cornell; Bianca Zialcita; Perry Dizon; Joel Torre
Sceneggiatura: Boots Agbayani S. Pastor, Patrick Bancarel, Arlyn de la Cruz, Brillante Mendoza
Fotografia: Odyssey Flores
Musiche: Teresa Barrozo
Montaggio: Yves Deschamps, Kats Serraon
Scenografia: Simon Legré, Benjamin Padero
Costumi: Deans Habal
Riconoscimenti
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