A prescindere dalle analisi, dalle verifiche in nome di equilibri narrativi, tenuta del tessuto, congruità dell'assunto ecc., che si potrebbero fare ogni volta esce un film di Tarantino, resta il piacere, spesso sottaciuto, inconfessato, per un palinsesto sempre plastico, luccicante, crepitante come nitrato: il gioco (linguistico), con tutte le sue infinite promesse inscritte nella finitudine di quella plastica, e offerto agli infanti, al costo di 75 cent.


E in effetti si direbbe che l'andamento di questo C'era una volta a...Hollywood sia un po' stanco, le situazioni, i motivi classici di Tarantino un po' posticci, meno connaturali del solito al respiro, al metabolismo del film, come in effetti sembra essere, ma se tutto ciò testimoniasse, volesse testimoniare a livello estetico, espressivo, proprio una stanchezza dell'autore (momentanea, si spera), una specie di crepuscolo del cinema, delle possibilità di filmare da parte di Tarantino? Del resto questo film appare più malinconico di altri, con una Los Angeles mostrata al tramonto, quando tutti gli attori e la miriade di comparse hanno finito di lavorare, i set si svuotano, le porte si chiudono, e si torna a casa riversandosi per le strade, i larghi asfalti californiani, come fa Sharon Tate uscita dal cinema in cui ha visto The Wrecking Crew, sotto un cielo oramai violaceo, mentre suona California Dreamin' nella versione languida di José Feliciano.

E poi alla fine Miss Lily Langtry (cue from The Life and Times of Judge Roy Bean) di Maurice Jarre, l'andamento nostalgico che accompagna i titoli di coda: qualcosa come un ripiegamento su di sé, una tristezza sfumata, per un autore che fa, ha fatto finora, dell'estroflessione, della vivacità divertita, anche beffarda, il proprio contrassegno formale; e che perciò appronta una specie di bilancio del proprio cinema, richiamando dagli interstizi del suo immaginario personaggi, attori e scene che nel frattempo sono cambiati per via dell'azione germinante, trasmutante dell'immaginazione (che fa il suo corso e incide il, incide sul mondo, sui mondi), rutilante nell'etere, e provocando così un cortocircuito, tra (re)incarnazioni, citazioni, allusioni in favore della salvifica, redimente dimensione cinematografica. Perciò Stuntman Mike è Randi nel corpo di Kurt Russel, il capo degli stuntman; Aldo L'Apache (Brad Pitt) è McLosky (Rick Dalton-Di Caprio di cui Cliff Booth-Pitt è amico e assistente) alle prese con i nazisti dei Bastardi senza gloria; John Ruth “il boia” è Jake Cahill di Bounty Law e così via: caratteri, fisionomie, intere complessioni, contesti e situazioni trasmigrano da un corpo all'altro, da un luogo e un tempo all'altro creando l'hic et nunc del cinema, cioè di una forma espressiva, una politica delle immagini che, votata all'essenziale, non può che occuparsi di se stessa.

È in questo senso che C'era una volta a Hollywood è il film più feticista di Tarantino, nella misura in cui convoca a sé non solo gli archetipi di un immaginario onnivoro, da Margheriti a Corbucci a Leone, ma soprattutto i protagonisti (già propaggini a partire da quegli archetipi), le ossessioni del suo cinema: un feticismo del feticismo, feticismo al quadrato, tra fenomenologia dei piedi femminili, dei femori carnei, ondulanti delle donne, e le loro ascelle pelose, e contrappunto di natiche ben coperte dai pantaloncini in jeans, ma anche i muscoli dello stuntman Cliff in puntello di cicatrici. Non il piacere per quelle cose, i piedi, le ascelle, leggera cellulite ovunque, ma per la possibilità che il cinema ha, e ha avuto, di inquadrarle facendole così vibrare, di amplificarle nel loro morboso candore ingiallito o annerito sotto la pianta dei piedi.

Allora l'eccitazione è per il quadro, l'inquadratura di quelle cose, a prescindere dalla loro profondità di segno, ché i tropi sembrano banditi da questo cinema: gli interessa la superficie, la bidimensionalità dell'immagine, al limite il mero significante; non la materia cinematografica (con le sue inferenze in profondità – anche in profondità di campo –, nel retroterra simbolico), ma i materiali cinematografici, superfici in cui si espleta questo super-feticismo, tra ubiquità di locandine e fotobuste, set con corollario di suppellettili in cellulosa, schermi televisivi, quelli cinematografici rigati, incagliati, marchiati dalle bruciature di sigaretta.

Si tratta del piacere di toccare la carta, la pellicola, quei piedi che hanno camminato nudi sui mattoni o tra la polvere dei ranch, mostrandone i segni sublimi (un ingiallimento o annerimento della carne, dei materiali) sotto le piante; ma non piedi di carne, piuttosto piedi in celluloide, così come lo era il Nacho Grande, pasto ipertrofico, che Stuntman Mike divorava in apoteosi di salse e materia straripante in Death Proof, o lo strudel con panna a parte, giacente piena, bianca, corposa nella scodella, e il latte trangugiato da Landa in Bastardi senza gloria; oppure il Big Kahuna Burger di Pulp Fiction, soffice a potenza, nella potenza, potenzialità cinematografica, così come tremula era la carne delle gambe e del ventre di Arlene Butterfly mentre ballava per Mike; era sagoma, carne di pura celluloide, non più penetrabile, se non nella sua bidimensionalità di figura, di foto, ma godibile in misura dello sguardo che vi si posa, lubrico, nella sua perfezione tutta immaginata. Sguardo al quadrato, doppio sguardo, eccitato, grondante di un piacere, di un desiderio che può espletarsi esclusivamente in se stesso, nell'occhio rigonfio di doppi sogni.

Solo in questa dimensione di celluloide, tutta autoreferenziale, ultrafeticista, autofeticista (perchè gode solo di sé, della propria tremula cellulite) la Storia può essere emendata dalla Cine-storia – o ammonita, se si pensa al rifiuto di Cliff difronte alle profferte sessuali di Pussycat, minorenne come tutta la progenie di minorenni ai bordi delle strade e che serpeggia, mai così desiderabile, in tutto il film, a prefigurare le sventure di Polanski –, quell'ucronia tarantiniana per cui a Hitler viene pestata coi tacchi la testa di plastica e a Tex masticati i testicoli, con l'agnizione finale del lanciafiamme e la voce squillante di Sharon Tate – una ragazza come tante altre, vitale, smagliante nelle sue gonne corte, anche ingenuamente vanitosa – che è viva e invita Rick Dalton a raggiungerla per un ultimo whisky sour, ma in celluloide.

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